Nei primi anni ’50, quando l’Italia si stava riprendendo dalla Seconda Guerra Mondiale e la società stava rapidamente cambiando grazie al boom industriale, una talentuosa figlia di una famiglia operaia, destinata alla fama, ha interpretato per molti il sogno possibile. “Carla Fracci ha lasciato una traccia indelebile per il suo mostrarsi come essere umano prima ancora dell’artista”. Il regista Daniele Luchetti ha dedicato ad una delle ballerine più celebrate della storia un documentario, scomparsa nel 2021, Codice Carla, nei cinema italiani solo il 13, 14 e 15 novembre, con Nexo Digital. “Di Carla sapevo giusto quello che sanno tutti. Ho provato a raccontare con il cuore un’artista che conoscevo poco», spiega il regista.
Il documentario è un viaggio nel cuore e nell’anima di una tra le figure più ammirate da artisti e intellettuali, tra cui Luchino Visconti. Nel 1955, durante la messa in scena dell’opera La Sonnambula di Bellini con Maria Callas, il regista di capolavori come “Ossessione”, “Bellissima”, “Rocco e i suo fratelli” e “ Il Gattopardo, aveva notato una giovanissima Carla, appena diplomata alla Scuola della Scala, esibirsi nel saggio Le Spectre de la rose, e ne rimase impressionato.
Codice Carla non intercala vecchie foto e materiale d’archivio per il classico racconto autobiografico dalla culla alla tomba. Le testimonianze di Roberto Bolle, Jeremy Irons, Marina Abramovic, Carolyn Carlson e i racconti più privati del marito e del figlio, Beppe e Francesco Menegatti, diventano espedienti narrativi per individuare il codice Carla, quel filo rosso che attraversa la vita e la carriera di chi, per dirla con Erik Bruhn, il ballerino danese “maestro” di Nureyev, ha dato al mondo una nuova idea della ballerina nel balletti romantici del XIX secolo. Ed è stato proprio Bruhn a volerla accanto a sé per danzare “Giselle“, al Metropolitan di New York.
La capacità di Carla Fracci era quella di muovere il corpo nello spazio in modo da occuparlo appieno, permettendo di espandersi in dimensione e tempo, come se l’aria stessa sostenesse il torso nel suo movimento vorticoso: quello era il momento in cui si fondava completamente con i suoi personaggi da diventarne parte. In Italia era chiamata “la Duse della danza”, come scrisse Clive Barnes del New York Times nel 1977, facendo riferimento alla grande attrice italiana del XX secolo Eleonora Duse. La danza di Fracci evocava un’epoca passata – sobria, lirica e, soprattutto, leggera e aerea. Aveva quell’effetto leggendario di far sembrare che i piedi della ballerina sfiorassero il suolo, come se la gravità avesse perso il controllo sul suo corpo.
Eterna fanciulla danzante, così la chiamava Montale, «una fata che genera altri tempi» la definiva Alda Merini, eppure la bianca regina del balletto, non si sentiva un mito. “Sono una donna normale, prima di tutto una moglie e una mamma“. Ricorda con orgoglio di quando faceva di tutto per portare la danza in ogni parte d’Italia, nei teatri tenda, negli spazi di provincia, “perché la danza è democratica“. Si arrabbia per lo scarso interesse dello stato nei confronti delle questioni sociali e ambientali.
“Una donna ancora in gradi di parlarci dell’oggi – conclude Luchetti – Una straordinaria eredità per le generazioni future e per coloro che sanno apprezzare e apprendere dalla sua indiscutibile maestria nella danza e nella vita”.