Nel 2016, a 27 anni, originario della periferia veneta, Francesco Montagner, regista, diplomato alla scuola Famu, prestigiosa Accademia di Cinema della Repubblica Ceca, decide di realizzare un progetto su una famiglia della periferia bosniaca, un contesto bucolico, arcaico pastorale. Si tratta di tre ragazzi, tre fratelli, poco più piccoli di lui, verso i quali è scattata una sorta di identificazione. Da questa radice nasce il documentario d’osservazione sviluppato in quattro anni di lavoro, “Brotherhood”, uscito nel 2021, prodotto da Nefertiti Film e Nutprodukce con Rai Cinema. E’ stato presentato nella sezione Cineasti del Presente del 74° Festival di Locarno e premiato con il Pardo d’Oro, nella sezione Panorama Italiano di Alice nella Città. Dal 21 aprile è nelle sale.
Da periferia a periferia, da ragazzo a ragazzi. Una famiglia al maschile, che si occupa di pastorizia, un’arcadia segnata dalle mine e telefoni cellulari. Si evince in modo indiretto, attraverso le parole di un canto, che la madre dei ragazzi è morta. Un padre radicalizzato, Ibrahim, cresce i figli secondo i dettami del Corano. Uzeir,il figlio più piccolo, va alle scuole medie, Usama, il figlio medio, ha abbandonato la scuola e si dedica al gregge, Jabir, il maggiore, è pronto per lavorare, diventare adulto. Attraverso una piccola realtà, viene raccontata la Bosnia post conflitto, islamizzata, contemporanea, ancora percorsa dagli echi della guerra.
Il processo e la condanna a due anni per terrorismo del padre Ibrahim per la sua predicazione in Siria costringe la famiglia a separarsi. Date le consegne dal padre, quindi, i tre fratelli dovranno cavarsela da soli, ma entrando prepotentemente in contatto con la propria coscienza, le proprie domande interiori, solitudini, aspirazioni, il proprio diventare adulti e uomini.
E’ qui che si sente con forza la cifra impressa da Francesco Montagner. Innanzitutto l’ascolto e il rispetto dei personaggi, che sono persone reali, con le quali il regista è entrato in contatto diretto, nel corso degli anni. I ritratti di ciascuno, Jabir, Usama, Uzeir, nella propria evoluzione, dimostrano da parte del regista una ricerca di equilibrio, l’assenza di giudizio, una tenerezza nello sguardo.
Il ritrarre è stato guidato dalle domande esistenziali che si è posto il regista: “Chi sarei diventato da adolescente se fossi cresciuto con un padre forte e autoritario come Ibrahim? Avrei seguito le sue orme o avrei scelto un’altra via? Che forma di mascolinità avrei assunto? Avrei deciso di ribellarmi al suo essere autoritario? Ma soprattutto, quale sarà il futuro di questi tre fratelli appena adolescenti?”
Sullo sfondo di un paesaggio montano, agreste, che offre a tutto il film un sonoro d’ambiente, fatto di canti d’uccelli, belati e campanacci, si propone un dilemma che percorre i millenni, i miti e i testi sacri. L’essere fratelli, l’essere famiglia, il restare nel solco o cercare un proprio destino. “Non è solamente un romanzo di formazione: è una favola contemporanea, una storia universale sul significato di essere fratelli. – ancora Montagner – nasce dunque da un’esigenza personale di scoprire le radici della mascolinità e di un dialogo intergenerazionale difficile, in un paese bello e pieno di contraddizioni come la Bosnia”.
Allontanandosi e riavvicinandosi, come cuccioli che lottano, per gioco o sul serio, tra dominio, competizione, umiliarsi e perdonarsi, i tre fratelli iniziano a guardare a strade divergenti. Jabir, sul cui volto enigmatico e sofferente indugia la camera, inizia a immaginarsi con un lavoro all’estero, in Germania. Usama, il più istintivo ma più vicino alle tradizioni, conferma la sua scelta per la pastorizia, anche se esposto alle inevitabili sconfitte che impone la natura. Uzeir, che in quattro anni passa dall’infanzia all’adolescenza, guarda tra le scelte dei due fratelli immaginandosi, forse, una terza strada.
Parche le parole, come si confà a un ambiente ruvido e maschile, essenziali i dialoghi. Al rientro del padre, che cerca di riportare tutto allo stato iniziale, resta aperta la domanda sul destino dei tre ragazzi, su quanta consapevolezza abbiano maturato nei due anni di autogestione, di errori, di speranze. Due anni in cui la fratellanza è stata anche distanza, dirsi la verità, occasione per confrontarsi, darsele di santa ragione, farsi male, per poi finire in una specie di abbraccio.
“Ognuno ha il proprio percorso” riconosce Usama in uno dei momenti più toccanti del film, durante il dialogo con Jabir. Scegliere cosa fare della propria vita si può. Lo ha persino detto l’insegnante di religione islamica alla scuola di Uzeir, aprendo a una interpretazione più moderna dell’Islam. Ed è su Uzeir, il figlio più giovane, che si concentra il nostro sguardo, mentre si affastellano le domande su una terra, poco distante da noi, e su una guerra di cui a malapena ci siamo accorti. Montagner cita nelle note di regìa dai “Racconti di Sarajevo” del premio Nobel Ivo Andric: “Si può affermare che ci sono pochi paesi che hanno una fede così forte, caratteri così sublimi, una così grande tenerezza e tanta passione, tanta profondità di sentimenti, tanta incrollabile fede, tanta sete di giustizia. Ma sotto tutto questo, nelle profondità dense, si celano una moltitudine di tifoni ancora non scatenati, ammassati, che maturano e attendono la loro ora”.
Tra i sostenitori di “Brotherhood” si sono aggiunti negli anni ARTE, Al Jazeera, Czech Television e numerosi fondi regionali, tra cui il Fondo per l’Audiovisivo del Friuli Venezia Giulia, nazionali, per arrivare ad Eurimages dell’Unione Europea, hanno contribuito alla realizzazione.Quanto ai produttori Nefertiti Film fondata nel 2013 da Nadia Trevisan e Alberto Fasulo, è una produzione cinematografica e audiovisiva indipendente con sede in Friuli Venezia Giulia e a Roma. Nutprodukce è una delle principali società di produzione sul mercato Ceco, vincitrice di 14 Czech Lions e 6 Czech Critics’Awards.