Il 4 dicembre 1969, l’attivista americano per i diritti civili Fred Hampton fu assassinato nel suo letto, in un brutale raid compito all’alba dall’FBI. La sua ragazza Deborah Johnson era incinta ed è sopravvissuta all’attacco, così come il loro figlio nato settimane dopo. L’FBI ha sparato 99 colpi nell’appartamento di Hampton; gli era stata consegnata la planimetria in anticipo da uno dei suoi più fidati confidenti: Bill O’Neal, un voltagabbana che si era infiltrato negli Illinois Panthers per spiare le mosse del movimento e riferirle ai federali. Hampton fu la vittima di una delle più ricorrenti paranoie dell’allora capo dell’FBI, Edgard Hoover, quella dell’avvento di un nuovo messia nero in grado di mobilitare le masse.
Judas and Black Messiah”, il nuovo film di Shaka King candidato a 6 Premi Oscar, tra cui miglior film e miglior attore non protagonista, ha Daniel Kaluuya bel ruolo del carismatico leader, un rivoluzionario marxista con una sensibilità da poeta e disposto a dare la vita alla sua gente. O’Neal è interpretato da Lakeith Stanfield, un ladro senza alcuna ambizione politica tanto meno quella di uccidere un membro del movimento delle Pante nere.
Con tono piuttoso greve, il film intreccia l’impegno militante di Hamilton con il ritratto intimo della sua vita, offrendo una nuova prospettiva sul movimento delle Pantere Nere, fondato da Huey Newton e Bobby Seale nel 1966 per evitare che gli agenti perpetrassero violenze sugli afro-americani di Oakland, una città della Bay Area della California. Newton e Seale decisero di organizzare un gruppo armato per difendere i diritti costituzionali dei neri della loro comunità. Judas and the Black Messiah naviga il paradosso ideologico di violenza e non violenza nelle proteste dei neri d’america, prendendo una posizione chiara: quando l’obiettivo è la liberazione, la giustizia e la lotta per l’uguaglianza, l’unica strada possibile è la guerra.
In un paese come gli Stati Uniti scossi dalle proteste contro l’ingiustizia razziale, la brutalità della polizia e l’omicidio di afroamericani come George Floyd, Breonna Taylor, Ahmaud Arbery e Tony McDaem, ai registi neri spetta il compito più difficile, far comprendere al pubblico le cause all’origine delle rivolte degli afroamericani, troppe spesso stigmatizzate sul grande schermo come forme di terrorismo nei confronti dei bianchi.