Presentato alla 72ª edizione del festival di Cannes, Sorry we missed you, di Ken Loach, fa riferimento al biglietto che i fattorini delle spedizioni lasciano sulla porta di casa dei destinatari quando la consegna non viene effettuata. Dopo I, Daniel Blake, abbiamo ancora una volta il racconto di uno sconfitto; in questo caso di un lavoratore autonomo e precario insieme, senza diritti nè tutele. La storia è quella di Ricky, cittadino di New Castle, ex idraulico presso una società edile entrata in crisi con il crash del 2008, che acquista un furgone per diventare “imprenditore” delle consegne grazie alla vendita dell’auto della moglie. Guida per almeno 14 ore al giorno ed è controllato da un computerino. Tra ritmi massacranti e un regolamento penalizzante che gli impone penali per le giornate di non lavoro, Ricky si ritrova senza più un momento da dedicare ai figli e alla moglie Abbie. Che, a sua volta, fa l’infermiera a domicilio (pagata a visita).
Ken Loach è uno dei pochi registi ad immedesimarsi nelle sofferenze della working class, quel segmento di lavoratori alle prese con i diversi processi di ristrutturazione del capitalismo. I suoi film hanno descritto l’erosione, quindi la dissoluzione della solidarietà operaia, l’atomizzazione della vita sociale, lo smatellamento del welfare per le utopie consumistiche. Ancora una volta affronta la sostituzione del criterio della dipendenza economica con quello del coordinamento spazio-temporale del lavoro a discrezione del datore del lavoro.
“Le parole chiave della nostra epoca sono flessibilizzazione ed economia della condivisione – spiega in conferenza stampa il regista britannico – “o meglio flexecurity e sharing economy perché hanno un suono più gradevole dietro al quale, tuttavia, si celano più oscure verità e un esercito di schiavi odierni”.
Sorry, We Missed you è del tutto in linea con la narrazione tradizionalmente umanistica di Loach. Non c’è traccia di quell’umorismo disperato che rendeva tragicomici i personaggi dei suoi film precedenti. Si spinge al limite con una vicenda estrema per denunciare questa economia di strani lavori, l’uberizzazione, che usa e abusa di una forza lavoro precaria e quindi flessibile, che riduce il lavoratore ad essere un ingranaggio del business con pesanti ricadute psicologiche sulla vita personale.
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