Nella giornata dell’arrivo dei Ferragnez e della proiezione pubblica del documentario “Unposted” che pare sia una celebrazione agiografica priva di contraddittorio della santa Chiara nazionale, ho compreso una cosa. La capacità di avere contenuti reali dentro di sè è (più o meno) inversamente proporzionale al numero dei followers che si hanno sui social. La regista argentina Lucrecia Martel, presidente di giuria della 76. edizione della Mostra, non è in nessun social, in nessun profilo pubblico. Atea, omossessuale, intelligentissima e colta. Zero followers. Chiara Ferragni 17,4 milioni.
Oggi la Martel ha ricevuto il premio Robert Bresson, assegnato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e la Rivista del Cinematografo, con il Patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede. Premio che in passato è andato anche a Giuseppe Tornatore, Manoel de Oliveira, Theo Angelopoulos, Wim Wenders, Aleksandr Sokurov, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Ken Loach, Gianni Amelio e Liliana Cavani.
Un coup de theatre per la Chiesa Cattolica? Qualcosa sta cambiando anche se dice la stessa Martel a microfoni spenti, “la mia sessualità non mi consentirebbe ancora di essere amica di un Papa, e questo è certamente qualcosa sul quale abbiamo il dovere di impegnarci perchè la morale cambi”.
Lucrecia, che non ha nemmeno un profilo social, figuratevi quanto è lontana da Chiara, ha avuto una vita a dir poco movimentata. Nata a Salta, in Argentina, nel 1966, la sua ambizione era fare la tuttologa, da storia a zoologia, da psicologia a ingegneria, voleva sapere tutto. Forse per questo ha deciso di fare il cinema, l’arte che, per eccellenza, comprende tutte le altre.
Dal 2001 ha fatto coming out e dal 2016 vive con la sua fidanzata Julieta Laso, una cantante di tango, a Buenos Aires. Sappiamo molte cose di Lucrecia proprio dai profili social di Julieta che oggi aspettava la sua Lucrecia a fine incontro per baciarla con orgoglio.
“Dedico questo premio a Juli e Vicki” ha detto commossa Lucrecia, che qui ha voluto circondarsi per tutta la durata della mostra dei suoi affetti più cari. Non è un caso, dato che proprio nel 2016 la regista ha passato momenti difficilissimi come quelli di una diagnosi di tumore all’utero. Ha dovuto rimandare le riprese, sottoporsi alle cure del caso e infine avere la meglio sul male sempre sostenuta dalla sua Juli.
Artista rigorosa, capace con una manciata di film di salire alla ribalta internazionale con una poetica riconoscibilissima, squisitamente femminile, originale senza essere mai gratuita, al servizio delle sue storie fuori dall’ordinario e dei loro risvolti umani, sociali, spirituali, Lucrecia Martel è l’autrice di opere spiazzanti e significative quali La ciénaga (2001), La niña santa (2004), La mujer sin cabeza (2008) e il più recente Zama (2017), presentato Fuori concorso alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Lavori segnati da una profonda e irriducibile passione nei confronti del mondo e dell’Umanità che lo abita, delle sue aspirazioni e dei suoi conflitti, delle sue bassezze e dei suoi slanci più “celesti”, sullo sfondo vivo della tormentata società argentina.
Il premio le è stato consegnato dall’ambasciatore dell’Argentina in Italia S.E. Tomàs Ferrari.
Intervistata da Tiziana Ferrario ecco qualche stralcio della sua conversazione.
“Questo è un premio molto importante e lei è la seconda donna a riceverlo consecutivamente, dopo Liliana Cavani. È un bel traguardo, segno che qualcosa sta cambiando per le registe donne”.
“Non si tratta solo di aprire la porta alle donne nel mondo del cinema” risponde Lucrecia Martel, “ma anche di prendere misure, magari imperfette o scomode ma utili ad affrontare il problema. Come le quote rosa, già adottate in politica e in economia. Quanto rapido sarà questo cambiamento in favore dei diritti delle donne”, dichiara Lucrecia Martel, con un filo di emozione nella voce, “dipende da tutti noi”.”.
Racconta, poi, di aver ricevuto dopo le recenti polemiche durante il festival (“Sono abituata alle domande difficili, non so se rispondo sempre bene, ma preferisco farlo comunque piuttosto che evitare la domanda”) una mail di Kathleen Kennedy, la donna che ha reso possibili tanti film di Spielberg e Lucas, fondamentale per il cinema di Hollywood. “Kathleen mi ha detto di aver iniziato a lavorare proprio grazie alla presenza di quote riservate alle donne”.
E sul movimento #metoo, cosa ne pensa? “È la punta dell’iceberg. Riguarda la protesta di donne coraggiosissime, ma si regge anche sulle spalle di decenni di lotta portata avanti da donne che non hanno mai avuto accesso alla stampa”.
E prosegue: “Lottiamo affinché le donne vengano ascoltate dalla giustizia, ma vengono ascoltate più dalla stampa, quindi per ora lo strumento per arrivare alla prima è passare per la seconda. Speriamo di fare presto un altro passo in avanti. A nessuno piace il giudizio sommario di un attacco mediatico”.
Su cosa sta lavorando, attualmente, al di fuori del compito di giurata? “Da otto anni lavoro a un documentario su reati commessi contro le comunità indigene del mio continente. Somiglia alla questione femminile, quella delle comunità indigene: oggi gli si richiede di dimostrare il loro status, così come alle donne viene chiesto di fare un discorso proprio, a parte, come il cinema al femminile”. E ancora, un’altra somiglianza: “Per secoli gli immigranti europei hanno deformato il pensiero locale, negando l’esistenza e i diritti degli indigeni. Evidente come questo si leghi alla questione uomo-donna”.
Davide Milani, emozionato e sinceramente curioso di fronte a una simile personalità e del medium cinematografico, chiede al Lucrecia, visto l’incarico incombente cui tornerà dopo l’incontro , cosa la colpisca maggiormente nelle opere che è chiamata a giudicare.
“Mi piace chi riflette sul mondo come se questo non ci appartenesse, chi non lo dà per scontato, come se non fossimo noi ad abitarlo e a deciderne le regole e le sorti. Se in un film qualcuno si fa una doccia calda come se fosse normale, la cosa mi rende sospetta, perché la doccia calda è prerogativa di una piccolissima parte della popolazione, un’eccezione. E Bresson, in questo, metteva in discussione tutte le cose che fuori dal cinema potremmo dare per scontate”.
“Fondazione Ente dello Spettacolo” esordisce il Presidente Mons. Davide Milani, “conferisce ogni anno questo premio allo sguardo che meglio riesce a cogliere, attraverso il cinema, la parte più autentica dell’Uomo, oltre la sua pura materialità, trascendente e completo in se stesso”.
Ed ecco qui la motivazione per il premio. Robert Bresson ha scritto che ‘girare vuol dire andare a un incontro’. Basterebbero queste parole per apprezzare la consanguineità tra il cinema del maestro francese e quello di Lucrecia Martel: quattro film per presentarsi al cospetto della settima arte con tutte le referenze del caso: uno stile cristallino, una poetica riconoscibile, una personalità fortissima. Quattro film per entrare nel suo mondo di personaggi talvolta opachi e talvolta solo sbiaditi, di programmi velleitari e orizzonti inagibili, di sfide ostiche e crisi mistiche, di slanci improvvisi e fossi a perderci l’anima. Tra il desiderio delle cose invisibili e la realtà di quelle visibili, l’occhio della Martel scruta il risvolto che unisce entrambe, con dolore e meraviglia, tristezza e piacere, sempre con quel desiderio enorme di comprendere che cosa significhi in fondo essere umani.
Noi ci siamo già innamorati di nuovo di Lucrecia, e come ha detto Tiziana Ferrario, chi non ha visto Zama, presentato a Venezia74, ponga rimedio.