La realtà dei festival è anche questa, accostare lustrini, cotillons e paillettes ai grandi temi del mondo. Le guerre in Medio Oriente e la tragedia dei migranti con le borse della Ferragni. It’s a fucked up world direbbero gli americani e noi che siamo nati dalla parte giusta del globo dovremmo ogni giorno essere grati di non vivere nessuna delle orribili cose che accadono ai protagonisti di Beyond the Beach – The Hell and the Hope. Essere grati ogni singolo minuto, invece troviamo anche il tempo di lamentarci.
Ci sono due pellicole che il direttore Barbera avrebbe fatto bene a mettere in concorso, El Principe, di cui diremo in separata sede e questo documentario, che andrebbe mostrato a Salvini almeno 24 ore al giorno. Ma ci sarebbe voluto troppo coraggio e non mi pare che questo direttore si sia fino a qui distinto per scelte particolarmente audaci. Personalmente avrei fatto vincere a Beyond the Beach – The Hell and the Hope tutti, e dico tutti, i premi di questa edizione.
Il regista Graeme Alistair Scott segue per 86 tremendi minuti la realtà che Emergency, l’organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada nel 1994, affronta invece per 365 giorni all’anno, 24 ore al giorno. Le bombe, il sangue, la violenza, la povertà, la disperazione, la tragedia, la paura, gli spari, gli attentati, la fame, la sete e, incredibilmente, anche l’amore e la speranza. Quello che potrebbe essere un fiction film, invece è la tragica realtà di medici, infermieri e volontari che hanno lasciato le loro comode vite per far parte di quel gruppo di eroi moderni, di uomini e donne che meriterebbero il Nobel per la Pace. Persone che come dice Giacomo “avevano tutto, lavoro, soldi, vita comoda, ma mi mancava qualcosa, e sono venuto via, e qui con Emergency ho trovato quello che cercavo. Ora ho tre magliette e due pantaloni e va bene così”. Un’altra ragazza bosniaca dice “Potevo stare a casa e non fare niente, ma ho fatto qualcosa sapendo che potevo farlo”.
A Kabul c’è Giulia, che è stata 9 anni tra le bombe e gli attentati. Vedere ciò che accade appena scoppia una bomba è devastante. Arrivano 100 persone in un attimo, le decisioni da prendere sono difficili, tutti sanguinano e sono in pericolo e qualcuno purtroppo non ce la farà. Altro che E.R., Giulia ci mostra bambini in condizioni gravissime, arti amputati, corpi ricoperti da ogni sorta di ferita. E sono civili. “Mi chiedo cosa c’entrino loro con tutto questo, e non ho le risposte”.
Non si può credere a ciò che si vede in questo documentario, a volte si piange, a volte si toglie addirittura lo sguardo tanto è forte. L’inutilità della guerra, la stupidità della guerra, la brutalità della guerra. Tutto davanti.
Non si può smettere di sottolineare quello che ci stiamo infliggendo, lo schifo che come uomini siamo capaci di essere così come poi possiamo fare atti di grande nobiltà d’animo e di amore. Una assurda contraddizione umana.
Scott entra nei campi rifugiati, nei centri protesi e alla fine, dentro le barche che tra la Libia e la Sicilia provano a salvare i migranti che vagano sui gommoni alla deriva. Non possono sconfinare nelle acque territoriali e spesso “perdono” l’opportunità di salvare queste persone perchè affondano prima di uscire dai confini di stato. Quando li salvano sono spesso disidratati o in condizioni critiche. Pensare a quello che accade e pensare di non accogliere queste persone è da criminali, pura pazzia.
I medici di Emergency, così come immagino quelli di tutte le organizzazioni umanitarie, cercano di ridare empatia e dignità a queste persone violentate dalla vita e spesso anche da altro. Sulla barca il chirurgo Alberto dice “cerchiamo di portare un po’ di speranza dentro al loro inferno”.
Un inferno che bisogna far terminare. Subito.