Thierry de Peretti, nato e cresciuto in Corsica, ripercorre gli anni di violenza politica e di confusione sociale che hanno caratterizzato la sua isola, un luogo difficile da spiegare e non solo dal punto di vista geografico. Il regista racconta il periodo in cui decine di giovani Corsi della sua generazione sono stati uccisi brutalmente, spesso per ragioni misteriose, perché avevano imboccato la strada del radicalismo politico e del crimine. E’ il periodo dell’Armata Corsa, gruppo armato nazionalista d’ispirazione marxista, fondato nel 1999. Questi ragazzi si consideravano “militanti” anche se la loro non era un’ideologia ma semplicemente un “movimento” intento a preservare l’identità di un territorio.
La storia parte dalla vicenda personale di uno di questi “combattenti” allo sbando, Stéphane, un ragazzo come tanti, un intellettuale medio borghese di Bastia che passa dalla piccola criminalità alla radicalizzazione politica, da atti terroristici alla clandestinità. La critica di de Perretti è aperta: al nazionalismo estremo strettamente connesso alla devianza sociale, alla connivenza tra Stato e mafia, alle organizzazioni sovversive dei potenti locali impegnati nei traffici illegali dell’isola e, persino, alla stampa. E soprattutto a ogni forma di estremismo politico, preludio di violenza e guerra. I ragazzi del movimento sovversivo hanno un’idea della legalità e della giustizia tutta loro, non si basano su veri principi, non hanno una vera etica e forse neanche piena consapevolezza delle cause che abbracciano come crociati pronti a morire “in nome del territorio”.
Il regista realizza un film tagliente, spietato in alcune scene come quella dell’attentato, ricostruito con efficacia documentaristica. Une vie violente, sebbene prenda spunto dalla vita di un militante realmente esistito, Nicolas Montigny, giovane attivista assassinato a Bastia nel 2001, si può definire un film corale per la pluralità delle voci che rappresenta, tutte maschili. Il legame che unisce il clan di Stéphane si fonda su uno strano cameratismo, uno spirito di gruppo che viene meno quando le minacce di morte incombono su uno dei membri, e alla fine sullo stesso Stéphane che si ritrova solo a sfuggire da una fine inevitabile.
Il film, nelle sale dal 23 maggio, distribuito da Kitchen film ha il merito di descrivere con estremo realismo le dinamiche all’interno del gruppo dei militanti ma appare, a tratti, troppo verboso. Il regista predilige i dialoghi all’azione e relega i personaggi femminili a poco più che comparse. E sebbene questo sia un racconto prettamente “maschile”, quasi “una storia di formazione” al contrario, trovo che la scelta di rappresentare la totale indifferenza delle donne davanti ad atti criminali di efferata violenza non solo sia poco aderente alla realtà ma assolutamente fastidiosa. La breve parentesi sulla vita carceraria di questi giovani militanti è, forse, una delle parti più riuscite del film che assume un tono poetico sulle struggenti note di un detenuto che intona una canzone tra le quattro mura di una prigione, attraversando tutti gli spazi angusti e grigi del carcere.
Une vie violente non è un’opera che lascia spazio alla speranza ma vuole più che altro omaggiare tutti quei giovani che si sono persi e sono stati uccisi, nel tentativo di instaurare un dialogo attraverso la memoria tra una generazione dimenticata e una ancora presente. Il momento di confusione politica e sociale che ha attraversato la Corsica, alla fine degli anni’90, è una ferita ancora aperta che non può essere risanata ma che serve a non dimenticare, a tracciare un fil rouge fatto di sangue tra il passato e il presente di un’isola dilaniata, tra il tragico fallimento dei sogni anarchici di una generazione e le speranze future della gioventù contemporanea.
Une vie violente ci parla della Corsa più come luogo interiore che geografico; è un film molto personale, cupo e diretto, frutto di un lungo lavoro personale che scava nella storia e nei ricordi personali, non a caso il regista dedica l’opera a suo padre.