Per il Sudestival il “festival lungo un inverno”, in corso a Monopoli, tra i film in programma il film “La Fuga”, esordio al lungometraggio della regista Sandra Vannucchi e interpretato da Donatella Finocchiaro – fresca di candidatura ai David di Donatello – e Filippo Nigro.
E’ la storia di Silvia, una bambina di undici anni curiosa e vivace, che vive in una situazione familiare complessa, segnata dalla depressione cronica della madre e dalle continue incomprensioni e difficoltà di comunicazione con il padre.
La malattia della madre, interpretata dalla Finocchiaro, rende estremamente fragili gli equilibri familiari e inciderà, dunque, sulla giovane protagonista.
Silvia ha il grande desiderio di visitare Roma ma in famiglia resta sempre inascoltata; capendo che nessuno le permetterà di realizzare il suo sogno decide di scappare, determinata a visitare la città per conto proprio. Durante il viaggio in treno incontra una ragazza rom, Emina, con cui instaura subito un forte legame di amicizia.
La fuga di Silvia riuscirà ad innescare un processo di crescita e di trasformazione nella ragazza stessa e in tutti coloro che la circondano.
Per l’occasione abbiamo dialogato con Donatella Finocchiaro, grande interprete del cinema italiano, che in questa intervista ci racconta del film e di sé.
Inizierei chiedendoti del film La Fuga. Come sei giunta a questo progetto? E come ti sei rapportata a Sandra Vannucchi alla sua opera prima.
Sono stata chiamata per interpretare questo personaggio, evidentemente Sandra ha pensato che la mia faccia fosse appropriata per il ruolo. E’, certamente, un personaggio molto difficile, molto duro, una donna affetta da una patologia grave, una depressione invalidante. La patologia è così pesante che le impedisce di vivere; all’inizio del film, infatti, c’è un immersione negli abissi di questa condizione. La narrazione si apre con una famiglia così silenziosa e piegata da tanto dramma, poi il film si evolve e si racconta, appunto, della fuga della protagonista -una ragazza adolescente- che scappa di casa, scappa dalla famiglia. Lo fa perché -e forse tutti a quell’età pensavamo di farlo- tutto le sta troppo stretto, tutto è limitante, o semplicemente perché è spinta dalla ribellione che appartiene agli adolescenti. A volte, infatti, solo per ribellarci dobbiamo fuggire o dire l’opposto che dicono i nostri genitori.
Questo film, dunque, racconta dell’adolescenza ed è davvero indicato per i ragazzi nonostante l’inizio drammatico. La fuga diventa una bellissima gita nella natura romana che la protagonista farà con una sua amica coetanea, una compagna d’avventura che incontra casualmente per strada.
Parlando delle due giovani amiche, loro appartengono a mondi diversi dove, ad esempio, anche la depressione viene percepita in maniera differente. Due modus vivendi opposti che si incontrano.
La ragazza Rom sicuramente vive in un mondo poco agiato, non c’è ricchezza e non c’è comodità, ha uno stile di vita difficile per una adolescente, ma quella è la sua vita, è la sua condizione. La cosa bella è proprio l’incontro tra queste due adolescenze così diverse, o almeno apparentemente diverse, che si ritrovano. E’ il racconto di un’amicizia.
Cosa ti hanno lasciato questo ruolo e questo film?
Sicuramente questo ruolo è stato, da un punto di vista sia professionale che di donna, molto complicato. Interpretare una donna depressa con una patologia così grave è stato difficile; il dover rappresentare l’assenza nello sguardo, una voce sempre rotta, l’assenza di desiderio è stato un viaggio delicato e duro. Indagare l’interiorità di un femminile quasi negato non è facile ma l’aiuto più grande mi è stato dato dalla regista Sandra che ha deciso di raccontare una storia autobiografica. E’, infatti, la sua storia e quella di sua madre e di come, trent’anni fa, sia capitato a lei di fuggire. Poi è stato fondamentale il supporto di Filippo Nigro, il suo personaggio è incredibile, mi supporta con il suo sguardo e mi è vicino continuamente anche solo con la presenza.
L’inizio del film è, quindi, molto forte ma allo stesso tempo toccante perché racconta di una famiglia certamente piegata ma unita.
Tornando al ruolo della donna, ti abbiamo visto, qualche giorno fa, su Rai Uno, interpretare il ruolo di Donna Matilde ne ‘La stagione della caccia’ un film tratto da un romanzo di Andrea Camilleri. Una donna di altri tempi condizionata dall’uomo. Oggi invece qual è la condizione della donna secondo te?
Una domanda complessa che avrebbe bisogno di una lunga riposta ma cercherò di essere breve (sorride n.d.r).
Sicuramente nel 1890 Donna Matilde era una donna schiacciata da quest’uomo che voleva a tutti costi un figlio maschio e che la costringeva tutte le sere sul letto a far sesso per procreare. Questa è una condizione femminile che spero non ci appartenga più anche se, purtroppo, ci sono donne che ancora soggiacciono ad un potere, anche psicologico, dell’essere uomo, dell’essere marito e del maschio in genere. Sfortunatamente, a volte, esiste ancora questo soggiogamento della donna all’uomo, è un condizionamento atavico che esiste da secoli. Comunque noi donne ci siamo prese le nostre rivincite, la nostra femminilità, la nostra indipendenza psicologica e fisica anche se è vero che, statisticamente parlando, le donne non sono al potere come gli uomini. Ci sono molte meno donne registe, meno ruoli femminili e le donne vengono, certamente, pagate meno degli uomini; insomma una parità ancora non esiste ma ci stiamo lavorando.
Come è stato, quindi, tornare a lavorare nella tua terra natia, la Sicilia, e interpretare un ruolo tratto da un romanzo di Andrea Camilleri?
Lavorare su una storia di Camilleri è stata delle cose più belle che potessero accadermi negli ultimi tempi; sognavo da un po’ di fare un ruolo in Montalbano ma per vari impegni non era mai capitato. Finalmente ho interpretato una donna di Camilleri, un personaggio stupendo che grazie alla follia torna libera. Grazie alla follia, infatti, dice basta e afferma la sua voglia di negare la condizione che vive e affermando, finalmente, se stessa.