“Se la strada potesse parlare” di Barry Jenkins, salito alla ribalta nel 2016 con il pluripremiato “Moonlight, è ambientato nell’Harlem del 1971. E’ l’adattamento dell’omonimo romanzo di James Baldwin dove il titolo fa riferimento alla canzone blues di W.C. Handy “Beale Street Blues”, omaggio musicale alla Beale Street (Via Beale) situata nella periferia di Memphis, nello stato del Tennessee, “capitale mondiale” di quello stupendo genere musicale che è il blues.
In effetti ci sono momenti in cui sorridiamo alle pietre miliari della cultura pop, dalla moda alle macchine, all’atmosfera del tempo. Un’esperienza visiva cosi coinvolgente rimane comunque schiacciata sotto il peso delle orribili ingiustizie inflitte a individui innocenti e il bigottismo dietro cui tali ingiustizie sono ancora così diffuse nell’America di oggi. Nel romanzo, Baldwin racchiude l’essenza stessa del suo pensiero, della sua vita. Solo pochi anni prima lo scrittore aveva visto morire, uno dopo l’altro, Medgar Evers, Malcom X e Martin Luther King, simboli granitici di una lotta per l’uguaglianza nell’America della segregazione razziale, della disgustosa arroganza del Klu Klux Klan, della violenza gratuita verso uomini e donne di colore, e verso i suoi fratelli e le sue sorelle.
Barry Jenkins riesce a portare sullo schermo la rabbia dello scrittore, profondamente intriso di dignità, fiducia e amore. Tisk, (la brava, quasi debuttante KiKi Layne) e l’aitante scultore Alonzo “Fonny” Hunt (Stephan James – il Jesse Owens di “Race”), nati come Baldwin a Harlem, attendono un figlio. Ma Fonny finisce in carcere per un crimine che non ha commesso. La vittima – che è stata violentata, ma non da Fonny – è fuggita a Porto Rico e non tornerà a testimoniare. Il che significa che il caso si ridurrà alla parola di Fonny contro quella del poliziotto.
In una serie di flashback, il regista racconta la storia d’amore tra i due giovani, gli incidenti che hanno portato all’arresto di Fonny, e la battaglia dei padri dei due ragazzi che rischiano la propria libertà per raccogliere i soldi necessari a pagare la difesa di Fonny.
Il film di Jenkins è una celebrazione dell’amore attraverso la storia di questi due giovani innamorati, come lui figli simbolici di quella Beale Street di cui hanno raccolto l’eredità, e di un intero popolo afro-americano che cerca, nonostante una giustizia a loro contraria, di vivere il sogno americano, un futuro fatto di lavoro, normalità e libertà.
Lo sdegno di Jenkins per il razzismo è palpabile ma il regista non calca mai la mano. La linea temporale non lineare porta con sé un forte afflato emotivo anche perché ci sono momenti in cui sappiamo che la gioia dei due ragazzi e il loro ottimismo non dureranno a lungo. Dopotutto James Baldwin parlando del suo libro disse: “Ogni poeta vive una sua forma di ottimismo, ma lungo la strada per raggiungerlo deve provare un certo livello di disperazione per poterlo poi vivere per tutta la vita”.
L’ottima fotografia, la scenografia e lo splendido sottofondo musicale jazz di “Se la strada potesse parlare” dimostrano l’amore del regista per il materiale letterario che ha sottomano, ma l’impegno dichiarato di Jenkins di volersi attenere il più possibile a romanzo, e a quel periodo, ha l’effetto di rendere i dialoghi, specie quelli di Tish, troppo verbosi per un film del genere.
Possiamo classificare, dunque, Se la strada potesse parlare, come un buon film che lascia lo spettatore offeso e avvilito per come il razzismo possa aver trovato, e trovare ancora spazio, anche in contesti urbani sviluppati, come New York, ma non solo.
Il film è candidato agli Oscar in tre categorie: Migliore attrice non protagonista (Regina King, Sharon, madre di Tish), Migliore colonna sonora originale e Migliore sceneggiatura non originale