Siamo nel 1949. Nella distrutta Polonia postbellica, il musicista Wiktor (Tomasz Kot), accompagnato dalla collega-fidanzata Irena (Agata Kulesza, la giovane cantante in “Ida”) e su incarico del nuovo governo comunista, cerca nelle campagne e montagne patrie voci nuove per formare la Compagnia Mazurek con lo scopo di riportare in vita le canzoni e i balli della tradizione popolare. Ma soprattutto, in nome della propaganda, deificare Stalin. Tra i candidati c’è la contadina Zula (la bravissima Joanna Kulig): il suo viso, la sua dinamica presenza affascinano Wiktor e da quel momento Irena scompare del tutto (nessuno spazio a momenti o dialoghi psicoanalitici!). Sullo sfondo dell’allora guerra fredda, prende corpo tra Polonia, Berlino, Jugoslavia e Parigi degli anni anni Cinquanta, un’impossibile storia d’amore in un momento storico altrettanto impossibile.
Premiato al Festival di Cannes (Migliore regia), e recente vincitore di cinque premi EFA (gli Oscar europei), arriva oggi sugli schermi italiani “Cold War” (Guerra fredda), sesto lungometraggio di Pawel Pawlikowski, già noto agli amanti della settima arte per essersi aggiudicato nel 2015 l’Oscar come “Migliore film straniero” per “Ida“.
Ancora una volta – aiutati da una stupenda fotografia in bianco e nero di Lukasz Zal -, il regista polacco e Jaroslaw Kaminski (montaggio) riescono a comporre una trama coinvolgente, pur senza scene madri spettacolari, con dialoghi ridotti al minimo e con scene che durano sempre il poco che basta per rimpiangerle: insomma, come nei melodrammatici romanzi d’appendice ottocenteschi – alla Dottor Zivago -, “Cold War” è una storia d’amore assoluto, non più verso Dio come in “Ida” ma fra due persone destinate a non stare mai insieme, se non con un matrimonio-suicidio (spirituale, più che fisico) su una panca alla maniera degli innamorati di Peynet.
A colpire profondamente, fin da subito, è la sempre maggiore rilevanza data da Pawlikowski alla musica (ogni spostamento geografico ha il suo suono), spaziando da quella folk della tradizione polacca alla classica, al rock e, soprattutto, al jazz, cioè la musica forse più legata al concetto di tradimento che in “Cold War” è in sottofondo il leit-motiv: tradimento della tradizione, dell’ideologia, degli ideali e di quello amoroso.
https://youtu.be/Ar0f2ofdIls
I brani vengono a formare una parallela sceneggiatura sui generis, che serve anche a descrivere i cambiamenti politici e sociali dell’Europa attraverso due decenni: è musica con versi che parlano d’amore, fedeltà e ideali che mal si conciliano però con la loro incapacità a costruire qualcosa assieme, al di là dell’attrazione fisica e dell’amore per la musica.
In “Cold War“, che potremmo definire un romanzo per immagini, tanto romanticismo dolce-amaro ma anche tanta disperazione, politica ed emotiva, ma senza sentimentalistici compiacimenti, rendendo così il tutto “naturale”, mai scontato. A mio giudizio, però, c’è più energia nella prima parte che non nella seconda.
Il film è liberamente ispirato dai genitori di Pawlikowski, i cui nomi sono quelli dei protagonisti del film. I veri Wiktor e Zula sono morti nel 1989, appena prima della caduta del Muro di Berlino: insieme per 40 anni, prendendosi e lasciandosi, rincorrendosi da una parte all’altra della Cortina di Ferro. “Erano due persone forti e meravigliose, ma come coppia un disastro totale”, ha detto di loro il regista polacco.
Gli spettatori più attenti, più “politicizzati”, troveranno senz’altro delle similitudini tra il regime mostrato nel film e l’attuale governo, come la sua anti-accidentalità, la retorica nazionalista, la propaganda nei media di stato, ma “Cold War” non parla di politica (da qui la scelta, per esempio, di non soffermarsi sul terrore e le sofferenze causati dal regime comunista polacco): quel momento storico è solo il contesto che aiuta a drammatizzare elementi più personali e universali, come l’amore, la difficoltà dei rapporti umani e sociali.
https://youtu.be/rW8Ub6Qw9GQ