Bohemian Rhapsody di Bryan Singer, nelle sale italiane a partire dal 29 novembre, racconta l’ascesa della band dei Queen, una band che ha venduto oltre 300 milioni di dischi nel mondo, e del suo leader indiscusso Freddie Mercury, pseudonimo di Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar il 5 settembre 1946. Un uomo pieno di contraddizioni: un pavone spudorato sul palco, un uomo altrettanto timido e insicuro dietro le quinte. Un film che prende le distanze dal solito biopic come mero esercizio di celebrazione di un mito dalla culla alla tomba.
Il documentario ripercorre infatti i primi 15 anni di carriera del gruppo. Dai giorni in cui Mercury era un giovane addetto ai bagagli dell’aeroporto di Heatrow fino al leggendario Live Aid allo stadio di Wimbledon nel 1985, un concerto di beneficenza per aiutare le popolazioni dell’Etiopia. Freddy Mercury, Brian May Roger Taylor, i due Queen superstiti, e John Deacon cantano per 20 minuti, e passano alla storia per una delle migliori esibizioni al mondo.
Ancora prima che Bohemian Rhapsody inizi, il logo della 20th Century Fox appare sullo schermo e la familiare fanfara della tromba viene eseguita con la chitarra di Brian Mays. È come se ti stessero dicendo di prepararti ad assistere ad un film concerto con la migliore colonna sonora di sempre. Nei panni di Freddie Mercury, la star di Mr. Robot, Rami Malek, sfrutta piuttosto bene la somiglianza fisica con la leggenda del rock, i suoi zigomi alti, la mascella infinita e, naturalmente, quei denti.
Sul palco, Malek è stravagante, civettuolo e ipnotizzante mentre fa il broncio e si pavoneggia come il vero Mercury. E’ abile nel ritrarre sia la rockstar che l’uomo. Il film non si sofferma molto sulla lunga relazione del cantante con Jim Hutton (Aaron McCusker), che gli starà accanto fino alla fine. Non ignora quello con Mary Austin, (interpretata da Lucy Boynton), sua fidanzata nella prima metà degli anni ’70. E’ lei l’amore della sua vita, la persona senza la quale Mercury non avrebbe avuto la possibilità di scoprire il suo talento e venire a patti con la sua sessualità. Nelle scene tra Mercury e Mary, si vede tutta la vulnerabilità di chi è alla ricerca della propria identità. (Ehi sì, le rockstar iconiche sono proprio come noi).
La storia ha ovvi paralleli con altri biopic musicali, forse perché la vita di tanti musicisti famosi segue la stessa parabola esistenziale, dall’ascesa vertiginosa all’inevitabile tracollo. Il tragico finale si insinua fin dal primo fotogramma con un primo piano silenzioso sugli occhi di Mercury per poi cedere il passo alle potenti note di “Somebody to Love”, che accompagnano Mercury verso il Live Aid, vestito in stile Castro Clone, ovvero baffi folti, jeans attillati, capelli corti e petto nudo.
Singer si sottrae alla tentazione di fare di Mercury il simbolo di qualsivoglia battaglia, il guerriero che non teme la morte imminente, quando già sapeva di essere condannato. Sì, è vero, il film pecca di facile moralismo, umanizza il personaggio e offre al pubblico il ritratto di un artista sospeso tra mito e quotidiano. La protagonista indiscussa rimane così la musica. Non a caso in una delle sequenze più belle del film assistiamo alla registrazione di “Bohemian Rhapsody”, brano che Mercury ha composto in una fattoria. Si vede la leggenda del rock scrivere i testi come se fosse in preda ad un’ispirazione divina. È lui da solo ad un pianoforte in una casa colonica con le sue emozioni crude e il talento naturale in mostra.
Il film ha avuto una tormentata gestazione durata 8 anni ma è destinato ad amplificare il mito della Regina. O meglio di “quattro outsider che cantano per altri disadattati”, per usare le stesse parole di Mercury in risposta a chi gli chiedeva cosa distingueva i Queen da tutte le altre band.