“Tu hai fatto di questa fortunata terra l’inferno tuo”. Con questa citazione tratta dall’Enrico VI di William Shakespeare si apre Corleone, documentario in due atti che racconta l’epopea di Totò Riina, tra le visioni più interessanti della tredicesima Edizione del Festival del Cinema di Roma.
Diretto dal regista francese Mosco Levi Boucalt e narrato da Maya Sansa il documentario, diviso in due parti distinte – il Potere e il Sangue e La Caduta – ripercorre con uno stile secco le vicende che hanno portato Totò Riina a diventare il Capo della cupola mafiosa fino all’arresto e alla sua morte, avvenuta nel carcere di Parma, il 17 Novembre 2017.
Com’è possibile che il semplice figlio di un contadino sia diventato il capo supremo di Cosa Nostra? Per rispondere, Levi-Boucalt parte da Corleone, un territorio fertile votato all’agricoltura ma trasformato in un vero e proprio inferno dal susseguirsi di faide feroci tra aspiranti boss. All’epoca di Riina, l’organizzazione mafiosa si divide tra lotte intestine e la necessità di espandere gli affari; il cinismo e la ferocia del boss di Corleone costituiranno la perfetta chiave di volta per l’organizzazione.
Il racconto di questa ascesa è affidato ai più stretti collaboratori di Riina, oggi pentiti, come Gaspare Mutolo, Francesco Paolo Anzelmo e Giovanni Brusca, l’esecutore materiale della strage di Capaci. Queste testimonianze, a volto coperto, hanno l’effetto di un pugno violento nello stomaco perché descrivono con precisione i metodi efferati adottati da Riina nella sua lotta al potere, come l’abitudine di far scomparire i corpi delle vittime o, nel peggiore dei casi, di farli divorare da animali affamati.
Mosco Levi Boucault, che aveva già affrontato una pagina buia della storia italiana nel documentario Erano le Brigate Rosse (2011), ha lavorato sotto copertura durante le riprese per offrire un resoconto il più possibile veritiero di quegli anni di violenza. L’effetto sugli spettatori è di rabbia e indignazione, anche grazie ad un sapiente utilizzo del repertorio dell’epoca. Le immagini delle vittime di Riina vengono alternate agli estratti del maxi-processo, in cui il boss si presenta dinnanzi ai giudici come un umile contadino, fortemente religioso ed estraneo a qualsiasi forma di associazione mafiosa.
Uno spazio importante occupano i racconti catartici di quegli eroi che invece la mafia l’hanno combattuta: Francesco Accordino, dirigente della polizia di Palermo, Letizia Battaglia, che per prima fotografò il corpo di Piersanti Mattarella, e soprattutto Giuseppe Ayala, amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, procuratore del maxi-processo cui, nel documentario, è affidato il delicato compito di guidarci nella comprensione della logica mafiosa.
Prodotto da Arte France e dalla siciliana Donatella Palermo, Corleone è nato da una discussione tra il regista e il questore Giuseppe Cucchiara a proposito de il Padrino e vuole offrire “una visione unitaria di una storia terribile”. Pur trattando vicende conosciute ai più, il documentario, grazie ad un impianto chiaro e rigoroso, riesce pienamente nell’intento, evitando qualsiasi forma di spettacolarizzazione e lasciando in chi guarda la voglia di documentarsi ulteriormente. L’importanza di Corleone è il tentativo di comprendere in profondità e dall’interno il processo mafioso, nei suoi riti ancestrali, nelle sue cause endemiche, in quella sete di potere che spinge uomini apparentemente semplici a compiere delitti più cruenti, solamente per essere considerati “gente di rispetto”.
Giovanni Brusca e gli altri luogotenenti di Riina oggi pentiti, hanno chiesto perdono alle famiglie delle loro vittime. Il capo dei capi, al contrario, non si è mai pentito fino al giorno della sua morte. Secondo i suoi affiliati aveva un unico sogno: passare indisturbato la vecchiaia a Corleone, in una casa costruita ad hoc per lui e la sua famiglia; era convinto che l’esito del maxi-processo e i legami con certa politica avrebbero favorito il suo intento. Quando è stato condannato a scontare 26 ergastoli ha ucciso in maniera plateale i suoi più grandi nemici: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Oggi quella casa è diventato un simbolo di legalità, una caserma della guardia di finanza che campeggia nelle terre ancora fertili di Corleone.