Un viaggio nel passato, un’incursione nel mondo delle tonnare e di coloro che le hanno vissute, amate e odiate.
E’ in ‘Diario di tonnara’ che il giovane regista di Oristano, Giovanni Zoppeddu, racconta i tonnaroti e il loro modus vivendi legato indissolubilmente al mare e al loro lavoro. Il documentario, prodotto da Istituto Luce Cinecittà, presentato alla Festa del Cinema di Roma e che arriverà nei cinema il prossimo anno, è stato realizzato grazie a scene originali girate nelle tonnare di Carloforte e di Trapani unite alle immagini degli archivi dell’Istituto Luce accompagnate dalla voce narrante di Ninni Ravazza, sub che ha lavorato per anni nella tonnara di Bonagia e che ha scritto un libro di memorie a cui il regista si è ispirato.
Quasi un rito pagano quello della tonnara condotto dal Rais, capo indiscusso dei suoi fedeli tonnaroti, ma anche un inno alla fatica del vivere questa condizione, una sorta di rapporto ancestrale che legava i tonnaroli a tale lavoro. Questo è quello che emerge nel documentario, un film che si ispira a maestri come De Seta, Quilici, Alliata e che, proprio da loro, sembra trarre l’atmosfera un po’ ovattata e d’altri tempi.
Tante immagini in bianco e nero, prima di quel “terremoto antropologico” – così lo definisce lo stesso Zoppeddu- che ha cambiato volto e cuore di molti italiani. “Alla lettura dell’esperienza di Ravizza – spiega il regista – mi si spalancò davanti un mondo a tinte quasi mitologiche, popolato da eroi e dalle tradizioni millenarie che questi pescatori – nella loro semplice ricerca di sostentamento – portavano avanti di padre in figlio. Com’era possibile che tutto questo fosse scomparso? Come poteva un modello millenario scomparire così, nel silenzio, accecato dal mondo industriale? Avrei dovuto assolutamente raccontare tutto questo, per provare a fermare il tempo. Per far rivivere una comunità e darle voce”.
L’intento di Zoppeddu è raggiunto. In ‘Diario di tonnara’ si respira il senso di comunità e del lavoro che univa quei pescatori, figure diventate quasi mitologiche e che nelle loro storie mostrano la fatica di vivere, la fiducia nel sacro, ma anche la passione per il proprio lavoro, volti scavati dalla fatica ma incredibilmente appassionati. Gli elementi della ritualità, del legame con la religione, della fiducia nella natura e della condivisione emergono palesemente nel racconto di questi uomini.
Oggi, però, tutto questo non esiste più. O forse resiste solo in piccole zone come, racconta lo stesso regista, a Carloforte, in Sardegna, dove, ancora sono coinvolti molti giovani del posto.
Il regista si chiede, dunque, se sia stato un bene cancellare, quasi completamente, quel mondo e se, davvero, si vada nella giusta direzione.
E’ bello pensare che grazie a lavori come questi, giovani registi possano, in qualche modo, farsi detentori di memorie storiche che non devono essere cancellate.