Avviso ai lettori. “Kursk” di Thomas Vinterberg, presentato in concorso alla Festa del Cinema di Roma, è potente, doloroso e crudo come sanno esserlo sempre i lavori di uno dei miei registi contemporanei preferiti. La storia è spirata alla vicenda del K-141 Kursk, un sottomarino russo a propulsione nucleare che affondò nel Mare di Barents nell’agosto del 2000.
Chi non lo conosce vada a vedere i suoi capolavori come Festen, Il sospetto e Via dalla pazza folla. Quello che interessa al direttore danese, come dichiara in conferenza stampa, è “esplorare quello strano e folle legame che si crea in alcune comunità, in alcune famiglie, in alcuni nuclei chiusi dove il senso un po’ claustrofobico ci riporta comunque all’umanità. Ed è questo il senso del film più che la ricostruzione di ciò che accadde, esplorare l’uomo ed i suoi sentimenti anche attraverso gli occhi di un bambino. Metto quasi sempre questo sguardo incorrotto su un mondo che invece lo è totalmente, proprio per ricordare che è quel senso di amore incondizionato e pulito che dovrebbe guidarci sempre”.
Un’idea di famiglia che comunque è totalmente lontana da come Thomas ha vissuto la sua infanzia che rivela aver passato dai 7 ai 19 anni “in una comune, esposto continuamente alle canne, ai genitali e alla nudità di un gruppo di persone che avevano fatto della libertà assoluta il loro modo di vivere, un gruppo di hippie intellettuali dove c’erano discussioni e conflitti ma che ricordo come assolutamente felice e meraviglioso” – e che ha infatti ispirato il film La Comune.
Cosa quindi può essere più claustrofobico di un sottomarino affondato a 100 metri di profondità dove i pochi sopravvissuti lottano contro il tempo e le scelte politiche di un governo testardo?
Ce lo racconta benissimo Vinterberg, attraverso gli occhi di Mathias Schoenarts che ha proposto al regista la sceneggiatura, Lea Seydoux e Colin Firth, i tre vertici di una piramide narrativa del dolore che si intreccia continuamente nel film.
Tratto dal romanzo di Robert Moore, A time to Die, la storia narra la vicenda accaduta realmente il 12 agosto del 2000 quando il sottomarino K-141 Kursk della Marina Militare Russa, Flotta del Nord, in procinto di fare alcune esercitazioni militari al largo nel mare di Barents, è vittima di un paio di esplosioni interne che affondano il mezzo e lasciano appena 23 sopravvissuti sui 118 dell’equipaggio originario.
Quei 23 ragazzi lotteranno strenuamente contro il tempo, l’ossigeno, la politica, la burocrazia, l’orgoglio e la speranza fino alla paura della morte con la quale prima o poi dovranno fare i conti. “E questo è un tema che mi è molto caro e che con mia moglie – che è un pastore protestante – affronto spesso. Una volta nei film se ne parlava di più e bisognerebbe tornare a farlo. E’ una questione fortissima, che fa parte della vita, e la ignoriamo completamente”.
Kursk è un altro capolavoro assoluto di Vinterberg, abile a tessere una trama che rimane viva e delicata comunque, umana e terribile. Quando anche l’ultima speranza sembra non dare più nulla, l’unica cosa che ci resta da fare è quello che fa Misha, il figlio del protagonista, non piegare la testa al potere e andare avanti con una dignità nuova.