Ismail e Hassan sono due fratelli che migrano dall’Afghanistan all’Italia in giovanissima età. Quando Ismail riesce a mettersi in contatto con la propria madre, tenta di vederla, nonostante lei si rifiuti. Di fronte alle varie difficoltà e tentennamenti, decide di recarsi nella terra d’origine della madre per parlarle.
“Un figlio si rivolge alla madre creduta morta fino a quel momento, ma lei non lo riconosce. Da quell’istante una forza misteriosa lo porta alla ricerca del modo per ricongiungersi a lei”. Costanza Quatriglio, Nastro d’Argento per il Miglior Documentario nel 2015 con Triangle e Premio Speciale ai Nastri d’Argento dell’anno successivo con 87 Ore, con “Sembra mio figlio”, ci racconta la storia di Ismail e della madre per denunciare la persecuzione del popolo hazara, oggi forse l’etnia più perseguitata al mondo. Chi conosce le vicende de Il cacciatore di aquiloni, il best-seller di Khaled Hosseini, si ricorderà, forse, che il piccolo protagonista vittima di ogni forma di odio e violenza, è di etnia hazara.
Il film in sala dal 21 settembre con Ascent Film dopo essere passato al Festival di Locarno, viaggia alla ricerca di risposte che non esistono. “Esiste invece la possibilità – spiega ancora Quatriglio – per Ismail, di prendersi la parola, quella parola negata perché nessuno, fino a quel momento, l’ha ascoltata. Nella lingua madre riconosciamo la lingua del mondo, della pietà antica che non ha patria né paese né confini né frontiere”.
Sembra mio figlio si ispira ad una storia vera. Jan partito a piedi dall’Afghanistan quando era ancora bambino, dopo aver attraversato il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, ha vissuto per anni in un centro per minori stranieri non accompagnati. Era fuggito, come tanti suoi coetanei, alla furia dei Talebani negli anni che hanno preceduto l’11 settembre. Dal momento del distacco dalla madre, di lei non aveva avuto più notizie.
“Nell’estate del 2010 apprendo da Jan che la sua vita è cambiata dal momento in cui ha avuto il primo contatto telefonico con âbay, mamma”, dice ancora la regista. “Comincia per me un viaggio nella trascrizione dei suoi racconti: pagine e pagine, centinaia di fogli in cui mi immergo e da cui prendo distanza per poi immergermi di nuovo e ancora prendere distanza. Ne nasce subito il cortometraggio Breve film d’amore e libertà in cui Jan, con generosità e coraggio, rivive le telefonate con la madre fino al punto di rottura di ogni emozione, il riconoscimento. Passano ancora anni, lascio che la vita abbia il suo corso, poi arriva il momento e mi decido. Ismail, due fratelli, una famiglia, un popolo Le centinaia di pagine raccolte nell’arco di cinque, sei anni, diventano la base per inventare una storia che entra ed esce dalla realtà”.
Per Costanza Quatriglio, è l’inizio di un viaggio per portare il pubblico in un altro mondo. “Quando ho incontrato il vecchietto Dost Alì (letteralmente «Amico di Alì»), conosciuto in un piccolo villaggio dell’Iran e poi attore nel film, alla domanda «Secondo lei cosa dovrebbe raccontare un film sul popolo hazara?», ha risposto con gli occhi ancora pieni dell’orrore subìto nel ‘97 durante il massacro di Mazar-e-Sharif perpetrato dai Talebani sulla popolazione inerme: «Che non dobbiamo essere uccisi”.
Tante le storie possibili, tante le madri possibili. Il volto di Ismail nel quale si riflette l’esperienza biografica dell’attore che lo interpreta, il poeta Basir Ahang, ci conducono nel dramma della minoranza Hazara, vittima di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità sia in Afghanistan che in Pakistan, dove la comunità è ciclicamente colpita da attacchi di gruppi terroristici sunniti. Originariamente buddisti, gli Hazara vivono perlopiù nelle zone centrali dell’Afghanistan dove le due enormi statue di Buddha, simbolo della loro storia e cultura, sono state distrutte dai Talebani nel marzo 2001.
“Di questa gente mite, originariamente buddista e oggi perlopiù di fede sciita, pochi sanno e vogliono sapere”, conclude la regista.