Chi non ricorda l’interesse con il quale i media di tutto il mondo seguirono i due giorni di audizioni (10-11 aprile) di Mark Zuckerberg di fronte i membri della Commissione Congiunta di Giustizia, Energia e Commercio del Senato Americano seguite allo scandalo Cambridge Analytica? Il caso Cambridge Analytica è sintetizzabile ricordando una cifra: 87 milioni di utenti. A questi furono sottratti dati, quindi senza un loro esplicito consenso, accedendovi attraverso 270 mila profili Facebook che utilizzavano la app ‘This is Your Digital Life’. Lo scopo dell’operazione truffaldina fu: orientare politicamente gli utenti ed influenzare la campagna elettorale presidenziale negli Usa a favore di Donald Trump e quella sul voto Brexit nel Regno Unito.
Durante le audizioni, incalzato con discreto garbo, Zuckerberg fu costretto ad ammettere che anche i suoi dati erano stati venduti a Cambridge Analytica: insomma meglio ammettere, da subito, di essere stato gabbato per evitare il rogo, o meglio il fuoco fatuo della polemica mediatica. Dopo aver dichiarato pubblicamente la propria ‘responsabilità morale’ sui fatti ‘contestati’ , poiché a capo di quella che lui stesso definisce una piattaforma che ‘protegge la democrazia’, un’azienda ‘idealistica e ottimista’, Zuckerberg sembra essere passato ai fatti per dimostrare di aver imparato a lezione. La sua Facebook, in vista di importanti eventi ‘politici’, l’azienda ‘idealistica e ottimista’veste i panni della piattaforma paladina di democrazia e trasparenza. La notizia, riportata qualche giorno fa dal New York Times, conferma ‘gli impegni’ presi da Zuckerberg nei giorni del mea culpa in mondo visione: nel cuore del campus di Menlo Park, in California, si lavora alacremente alla costruzione di una sorta di quartier generale chiamato ‘war room’ da dove, sembra già dalla prossima settimana, Facebook lancerà la sua campagna pro trasparenza a garanzia delle prossime ed imminenti elezioni di medio termine negli Usa, oltre che di quelle in Brasile ed in altri paesi, senza dimenticare quelle dell’anno prossimo in Europa.
Nella war room, dotata di computer e di una mezza dozzina di monitor che saranno sintonizzati sui maggiori media americani ed internazionali, opererà un team composto da 20 persone. Il compito della task force, guidata da Samidh Chakrabarti, sarà quello di monitorare h24 il flusso di informazioni. Gli obiettivi dichiarti sono: a) sradicare la disinformazione, b) monitorare le famigerate fake news, c) cancellare account falsi, per evitare che questa miscela esplosiva quotidiana possa nuovamente influenzare gli elettori.
Il nome scelto per il quartier generale sembra voler far passare un messaggio chiaro: Zuckerberg, cioè Facebook, va alla guerra e sfida ‘gli agenti’delle potenze straniere (Russia e Iran) pronti a manipolare ed ingannare gli utenti, creare disordine e direzionare gli esiti delle consultazioni elettorali in un senso piuttosto che in un altro. Alle elezioni di medio termine mancano poche settimane, sette, Facebook deve dimostrare di essere quindi all’altezza della situazione per evitare quanto accaduto nel 2016. Per affrontare spammer, hacker e ‘agenti stranieri’basteranno la task force di war room e le migliaia di persone assunte per moderare e monitorare i contenuti politici della piattaforma che verranno archiviati al fine di tenerne traccia? Domanda da molti milioni di dollari, letteralmente.
Difficile poter dare una risposta ora. Dal 2016, gli operatori pagati per la diffusione di fake news hanno già modificato il loro comportamento, soprattutto quelli che hanno il preciso compito di orientare un voto politico. Priscilla Moriuchi, Direttore dello Sviluppo Strategico e Cybersecurity della Recorded Future, chiarisce che attualmente il problema non sono le fake news, non solo almeno, bensì il modo in cui vengono proposte determinate notizie capaci di polarizzare la discussione e di orientare il lettore per un partito o per un altro, a seconda del tema trattato o del fatto di cronaca riportato. Detto in altri termini, se volessimo utilizzare un esempio che ci riguarda da vicino, una notizia di cronaca nera che coinvolge un immigrato o uno straniero come presunto autore di un reato riesce a polarizzare e a rendere il dibattito tra lettori e commentatori più acceso e violento. Al centro del dibattito non c’è il reato commesso, il fatto in sé, bensì un aspetto del tutto irrilevante per valutare il reato stesso e condannarlo: la provenienza o l’origine di chi abbia commesso il fatto.
Da questo punto di vista è molto più difficile per aziende come Facebook, o anche Twitter, agire per arginare le interferenze di agenti stranieri e non. Ad ogni modo la war room segna una nuova era nella saga della politica ai tempi dei social e fa il suo bell’effetto, quasi cinematografico. All’inaugurazione sembra saranno invitati anche i giornalisti del NYT perché raccontino, senza svelare le ‘armi segrete’ dei software, quello che i migliori ingegneri, analisti e dirigenti faranno, seduti insieme nella stessa stanza, prima delle elezioni di medio termine.