Il 2 novembre 2014, il Procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone affermava che “non è accettabile dal punto di vista sociale e civile, prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato”. La persona cui si riferiva è Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre del 2009 , morto all’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre. In sette giorni, Stefano era passato da caserme, carcere ed ospedali, tutti luoghi in cui lo Stato è garante unico di una vita. Dopo 9 anni, la famiglia e Stefano attendono ancora giustizia. La società civile aspetta la verità, capire come sia stato possibile trovarsi di fronte un corpo esanime ridotto a 40 chili di solitudine e lividi. La storia giudiziaria del caso Cucchi è fatta di processi e di sentenze ribaltate, di responsabilità negate, rimbalzate, di perizie e contro perizie, di testimoni, tanti, di assoluzioni dedotte da ‘prove insufficienti’, di rinvii, di processi bis. Dal 2011, anno in cui fu avviato il primo processo a carico del 6 medici del Sandro Pertini, tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria, si arriva ad oggi con un processo bis a carico dei medici in attesa della pronuncia della Cassazione ed un altro a carico dei Carabinieri che per primi entrarono in ‘contatto’ con Stefano. Il 17 gennaio 2017, la Procura della Repubblica di Roma, chiuse le indagini del procedimento bis, formulando l’accusa di omicidio preterintenzionale nei confronti di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, carabinieri in servizio che arrestarono Stefano per detenzione di droga. A Tedesco si contesta anche il reato di falso e calunnia. Stessi reati per Roberto Mandolini, comandante Interinale presso la stazione di Roma Appia, e Vincenzo Nicolardi, carabiniere. L’atto di chiusura delle indagini è chiaro: il pestaggio subito da Stefano gli causò numerose lesioni sul corpo, queste «sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni»; avrebbero avuto «esiti permanenti», ma alla fine ne determinarono la morte anche per la «condotta omissiva» dei medici che ebbero in cura Cucchi.
Non si può immaginare quale sarà l’esito dei processi, se la giustizia umana sarà in grado di stabilire una verità che indichi ‘i responsabili’che, direttamente ed indirettamente, decretarono la fine di un’esistenza fragile eppure viva di speranze.
La storia di Stefano, però, la ricostruzione protocollata dei suoi ultimi sette giorni di vita, la cronaca e la letteratura giudiziaria diventano il film di apertura della 75esima Mostra del Cinema di Venezia. Un volto e un corpo tumefatto sono i testimoni di un prima ed un dopo rispetto quanto accaduto durante quei sette giorni di prigionia.
“Abbiamo studiato diecimila pagine di verbali e non le abbiamo solo lette, ma veramente studiate, con grande umiltà e un certo senso francescano per capire senza pregiudizi cosa è accaduto a Stefano in quei giorni infernali” – dice il regista.
Nelle sale dal 12 settembre, distribuito da Lucky Red e su Netflix, Sulla mia pelle è un monito a scrollarci di dosso l’ammuffimento del ‘non sono fatti nostri’. In questi giorni di caos senza empatia, è la chiamata cui rispondere con la presenza e la coscienza in allerta. Il diritto di uno garantisce il diritto di tutti, di ciascuno; la violazione di quel diritto, la dimenticanza di quella violazione, ci ha già condannati ad esserne tutti potenzialmente deprivati.
“Era importante trovare la misura giusta per restituire quei giorni di prigionia, emotivamente erano anni che stavo dietro a questa storia, molto prima di pensare che se ne potesse fare un film”, ha raccontato Alessandro Borghi, scelto da Cremonini per interpretare Cucchi. “Ho pensato che fosse l’occasione di usare il cinema per una storia che doveva assolutamente essere raccontata. Ho letto una sceneggiatura rigorosa senza alcuna strumentalizzazione, mi sono guardato intorno e ho visto la squadra che ci avrebbe lavorato e mi sono convinto”.
Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, non ha partecipato alla produzione del film, ma era al lido per la presentazione del film. Di lei non si può dire altro che quanto espresso dalle parole di Jasmine Trinca, nel ruolo di Ilaria: “Una donna che ha avuto il coraggio di rendere pubblico il suo dolore privato, un atto di generosità che doveva ricevere una grande forma di rispetto”. Emozionante.