Chi era bambino o appena adolescente sul finire degli anni ’70 ricorderà di quei vecchi film in bianco e nero che la Rai trasmetteva nelle mattine di quelle estati allora più miti. Tra i tanti che la memoria ripesca con il sorriso c’è il Frankenstein di James Whale del 1931, con Boris Karloff e la sua magistrale ed iconica interpretazione nei panni del mostro più famoso della letteratura, dal 19° secolo ad oggi. Dal 1910, si contano a decine le produzioni cinematografiche e televisive, le trasposizioni e le parodie – su tutte l’indimenticabile Frankenstein Junior di Mel Brooks del 1974 – che hanno raccontato in vari modi la storia del giovane dottore Victor Frankenstein e della sua creatura. Meno evocato invece il nome e meno conosciuta la appassionante biografia della scrittrice inglese, Mary Shelley, autrice del romanzo gotico, precursore del filone fantascientifico, Frankenstein, o il moderno Prometeo, best seller già alla prima edizione nel 1818.
Guardare Mary Shelley – Un amore immortale, film del 2017 diretto dalla regista Haifaa Al Mansour, in uscita nelle sale italiane il prossimo 22 agosto, è l’occasione migliore per andare a colmare una lacuna nella conoscenza ed un vuoto di riconoscimento dovuto a Mary Wollstonecraft Godwin, il cui pseudonimo fu appunto Mary Shelley. Presentato al Toronto International Film Festival 2017, e al Tribeca Film Festival lo scorso aprile, il film narra la storia del folle amore che unì Mary (Elle Fanning) ed il poeta e filosofo Percy Bysshe Shelley (Douglas Booth); ma è soprattutto un viaggio emozionale che ripercorre con maestria le tappe più importanti della vita di una ragazza, geniale e radicale intellettuale, nata nella Londra del 1797, che a soli 19 anni pubblicò l’opera per la quale è più conosciuta oggi. Il film è un biopic che espone la Mary Shelley non ancora famosa e ne racconta gli incontri e le relazioni con i personaggi che ne segnarono la vita: Claire Clairmont (Bel Powley), la sorellastra di Mary; l’affascinante Lord Byron (Tom Sturridge), considerato uno dei massimi poeti e politici britannici; Mr. William Godwin (Stephen Dillane), filosofo e politico oltre che padre di Mary; Samuel Taylor Coleridge (Hugh O’Connor), poeta, filosofo e massimo esponente insieme a William Wordsworth del Romanticismo Inglese; John Polidori (Ben Hardy), filosofo e medico personale di Lord Byron. Un cast giovane per mettere in scena intrecci ed umori vissuti da personaggi che segnarono un’epoca di cambiamenti paradigmatici e le cui interazioni nutriranno Mary di passione e di profondo dolore, oltre che di elegante e sorprendente forza per conquistare il diritto ad esprimere il proprio genio, le ispirazioni, la fame di conoscenza; perché nulla di sé venisse mortificato dal conformismo e dal sessismo della società britannica a cavallo tra rivoluzione industriale ed epoca vittoriana.
Al di là del contesto storico in cui si sviluppa la trama, da Mary Shelley ad Al Mansour, prima donna regista saudita, che ha collaborato alla sceneggiatura scritta da Emma Jensen, lo spettatore vive di suggestioni: ad essere messa in scena non è solo la storia di una donna vissuta 200 anni fa. Il film è moderno perché si presta ad essere un riuscito esperimento di comunicazione meta-filmica tra epoche e mondi lontani. La comunicazione meta-filmica avviene sulla trasmissione di un messaggio: l’istanza tutta contemporanea di faticosa ricerca dinamica, entropica di un modo di essere donna, all’interno di un universo statico e dogmatico disegnato da costumi morali (l’Inghilterra dell’800), da religioni (l’Arabia Saudita), modelli oggettivanti (i nostri) che ancora pre-definiscono un simulacro castrante di femminilità.