Nel suo libro “Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri” il giornalista Riccardo Staglianò vuole sfatare un bel po’ di luoghi comuni. Quelli di chi crede di condividere una sorta di bengala dell’economia, e per di più con abiti siglati da tutta una serie di buoni principi, dall’onestà alla democrazia, gestiti dalle piattaforme virtuali più potenti del mondo. Riflessioni che si contrappongono alla retorica: “La definiscono sharing economy, economia della condivisione, ma si tratta di una impostura linguistica: il nome più adatto è gig economy, letteralmente “economia dei lavoretti”. Non è che la causa di un lavoro sempre più misero, sottopagato, frenetico. Che svuota letteralmente il welfare. E, se un giorno non sei dell’umore giusto, rischi il posto.
E’ però la realtà quotidiana di molte persone, malcelata sotto una coltre di marketing e slang inglese che tentano di rendere cool una sostanziale perdita di diritti. E non solo giovani ad essere coinvolti in questo fenomeno ma anche non più giovani che, necessariamente, devono reinventarsi perché hanno perso il lavoro oppure inventarsi per poter arrivare a fine mese.
La realtà degli autisti privati di Uber, o dei rider che recapitano pasti pronti di Foodora e di Deliveroo, che vediamo sfrecciare nelle nostre città in bici, oppure degli operatori di Amazon mechanical turk, che dal pc domestico svolgono quelle piccole operazioni in cui l’uomo dà ancora filo da torcere all’intelligenza artificiale, come ad esempio mettere le didascalie alle fotografie. Sono piccole professioni e impieghi che permettono di “arrotondare” lo stipendio e arrivare a fine mese.
Ma bisogna fermarsi e pensare un attimo: si tratta di tipologie lavorative a dir poco alienanti, per di più sottopagate. Ecco quindi che il mito della sharing economy, alla luce delle storie e delle esperienze che Staglianò racconta nel suo libro, comincia a vacillare e a perdere quel fascino dato dalla retorica dei giochetti linguistici, in grado di rendere desiderabili condizioni di vita che, nei fatti, sono decisamente peggiori di quelle precedenti. Ma perché la sharing economy ci impoverisce tutti? Staglianò fa riferimento ad aziende come Uber, ma di esempi ce ne sono tanti altri, e spiega: queste aziende minimizzano le proprie tasse, andando a pagarle in Irlanda o Olanda attraverso meccanismi che sono legali ma immorali. Così facendo si impoverisce la società mettendo in crisi lo stato sociale.
Anche se negli ultimi mesi qualcosa si è mosso a livello europeo in tema di diritti. In Italia, Bologna è il primo comune ad avere adottato una carta dei diritti per i ciclorider (costretti a correre troppo per non perdere il lavoro e i clienti, ma perennemente a rischio infortuni e incidenti stradali).
Ma c’è ancora molto da fare a livello normativo e politico. La tecnologia in quanto tale, non è qualcosa della quale aver paura, ma bisogna saperla gestire attraverso regole per non lasciarsi sopraffare.