“Le ultime cose“, il film d’esordio della torinese Irene Dionisio, presentato nel 2016 alla Mostra del Cinema di Venezia, è indubbiamente un film riuscito. Una pellicola che offre spunti nuovi e scruta le motivazioni che spingono in tempi di crisi a rinunciare a “quelle cose” delle quali ci si priva solo per ragioni di forza maggiore. Sono spesso cose, il cui valore è centuplicato dagli affetti e dalle emozioni. Sono queste le cose che, per disperazione, una fetta piccola ma crescente di cittadini italiani porta al Banco dei pegni, dove si svolge il film. Negli ultimi anni le banche italiane si sono affrettate a tornare all’antico. Le banche che avevano chiuso il proprio banco dei pegni l’hanno riaperto. Quelle che ce l’avevano ancora l’hanno rispolverato e grandemente potenziato.
Perché tutto questo avviene nell’era della turbofinanza? Come mai riemerge un’attività di credito così tradizionale in un’epoca in cui ormai la maggior parte delle transazioni sui mercati finanziari la guidano gli algoritmi dell’intelligenza artificiale dei robot? Perché, da un lato, con la logica dei rating, le banche spersonalizzano sempre più il rapporto coi debitori e, dall’altro, con il banco dei pegni, rendono quel rapporto ancor più profondo, quasi ancestrale, al punto di accettare in garanzia “le ultime cose”?
Senza scomodare il dibattito degli anni Sessanta sul ritorno delle tecnologie tra Cambridge UK e Cambridge Massachussets, si può spiegare che la contraddizione è solo apparente. Le sempre maggiori disponibilità di dati (Big Data) e di tecniche per processarli (Information Technology) hanno effetti potenti sul mercato del credito, ma non possono cambiarlo del tutto. Tra non molto, le persone potranno utilizzare tutti i servizi di una banca in modalità virtuale, sfruttando magari strumenti di realtà aumentata.
Il momento economico ha di certo favorito il credito a pegno che con un giro d’affari annuo di poco inferiore al miliardo, grazie a 33mila prestiti erogati ogni mese, è tornato in auge. Sono sempre di più infatti coloro che si vedono negare un finanziamento perché risultano cattivi pagatori. Il credito su pegno può quindi rappresentare un canale alternativo di finanziamento per coloro che hanno già esaurito gli strumenti dei fidi e dei prestiti bancari, oppure hanno difficoltà di accesso al sistema del credito bancario o parabancario. Non solo. Un metodo veloce per ottenere denaro con un iter burocratico semplice.
E poi, contrariamente a quello che può essere il pensiero comune, i prestiti su pegno registrano tassi di restituzione maggiori rispetto alle somme ottenute tramite le forme tradizionali di credito. Questo perché sono per primi i debitori a non voler rinunciare ai ricordi di famiglia, a pezzi di vita.
Dunque, è il valore che la persona assegna alle cose date in pegno che determina, in gran parte, la probabilità che essa ripagherà il prestito. Un valore caldo e soggettivo. Proprio il contrario dei freddi numeri dello scoring o del rating attribuiti a quel cliente dagli algoritmi, che le regole di Basilea hanno reso ubiqui nella gestione del credito da parte delle banche. Freddi numeri che evidentemente – come mostra la colossale montagna di crediti in sofferenza che le banche si sono ritrovate addosso – non hanno centrato l’obiettivo di un controllo accurato del rischio di credito. Viene da concludere che, anche nell’era dei Big Data, considerare gli affetti, ricercare la dignità di ogni persona umana sono ineludibili anche per fare buoni affari nel credito. Non a caso, nel Libro dell’inquietudine, Ferdinando Pessoa scrive “I classificatori di cose … ignorano in generale che il classificabile è infinito e che dunque non si può classificare. Ma ancora di più stupisce che costoro ignorino l’esistenza di classificabili incogniti, cose dell’anima e della coscienza che abitano negli interstizi della conoscenza”.