Presentato fuori concorso al Festival di Berlino 2017, Final Portrait è finalmente arrivato nelle sale italiane. Il film diretto da Stanley Tucci su Alberto Giacometti, pittore, scultore e incisore raffinato, segue come traccia il libro di James Lord, un giovane e facoltoso americano che aveva fatto amicizia con l’artista.
Il regista di Big Night (1996) e Julia&Julia (2009), racconta un particolare periodo della vita dell’artista. Tutto si svolge nel 1964, quando Giacometti, interpretato da Geoffrey Rush (“La migliore offerta”) chiede a Lord James, l’attore Armie Hammer (visto di recente in “Chiamami con il tuo nome”) di posare per quello che sarebbe diventato il suo ultimo ritratto. Avrebbe dovuto essere un lavoro di un pomeriggio: in realtà,ci vollero 18 giorni perchè fosse completato.
Final Portrait non è un biopic tradizionale. Lo precisa lo stesso Tucci: “Non sono un grande appassionato di biopic. Non ho mai capito come si possa comprimere la vita di qualcuno in un’ora e mezza o due. Alla fine, ne viene fuori un susseguirsi di eventi, mentre questo è un film incentrato sui personaggi. E speriamo di essere riusciti a raccontare altrettanto bene, se non addirittura meglio, la persona e la sua vita concentrandoci su un arco di tempo così circoscritto”.
Gran parte del film è ambientato all’interno dello studio dell’artista. Uno spazio angusto ricoperto dalla polvere delle sculture di gesso che la Fondazione Giacometti si è impegnata a riprodurre quanto più fedelmente alle originali. Una scenografia perfetta per un film dove non accade niente di eclatante. La regia di Tucci si concentra infatti sulla ricostruzione aneddotica delle lunghe ore di posa per terminare il ritratto. Quanto basta per esplorare l’ego e la nevrosi di chi si gode i privilegi che la fama internazionale gli riconosce. A fare da contraltare alla follia dell’artista, la presenza calma e riverente di Armie Hammer.
Geoffrey incarna brillantemente Giacometti: la posizione gobba, la fronte corrugata dal costante dubbio di sé, l’atteggiamento spesso offensivo con impulsi maniacali. “Ma non può fare a meno di perseguirli – spiega Tucci – è una questione di sopravvivenza, non di egoismo o malvagità”.
Gli appassionati di storia dell’arte potranno godere appieno del piacere visivo che fuoriesce dalle opere dell’artista. Ma i tempi si dilatano eccessivamente e lo spettatore comincia ad accusare una certa stanchezza mentre segue il tumulto creativo a cui lo sottopone Giacometti. È indubbio che non fosse previsto nelle intenzioni del regista.
Tuttavia una delle principali delizie del film risiede nel ritmo scherzoso dei dialoghi. È divertente vedere come l’educazione impostata di Lord James diventi il bersaglio delle prese in giro di Giacometti.
Ma c’è dell’altro, c’è che Giacometti ha sempre negato quella che oggi conosciamo come la “cultura della celebrità”. A chi lo definiva genio per la sua capacità di plasmare figure filiformi, di un’essenzialità quasi ossea, per svelare la tragedia della condizione umana, rispondeva: “Lasciate perdere le questioni metafisiche ed esistenziali: sto solo pasticciando col gesso, mi trastullo con la creta. Non so dove sto andando. Mi limito a giocare, finché a un certo punto non viene fuori qualcosa”.