Dopo il debutto alla Mostra del Cinema di Venezia, La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli arriva nelle sale il 17 settembre distribuito da Vision Distribution. È un film che sfiora l’horror ma preferisce un territorio più ambiguo. Al centro c’è Remis, un villaggio di montagna dove la felicità sembra regola e destino. Tutto appare protetto e immobile, come se il dolore non fosse mai esistito. Ma quell’armonia ha un prezzo: una volta alla settimana gli abitanti si radunano per abbracciare Matteo Corbin, un adolescente capace di assorbire la sofferenza di tutti.
«Volevamo raccontare come ci difendiamo dalla sofferenza», spiega il regista. L’idea del film nasce nel 2017, quando insieme agli sceneggiatori Milo Tissone e Jacopo del Giudice comincia a riflettere sul bisogno umano di cancellare il dolore, sostituendolo con psicofarmaci, religioni o pratiche spirituali. In La valle dei sorrisi questo meccanismo prende forma in un adolescente in carne e ossa, trasformato in strumento e vittima della comunità.
La narrazione si apre con l’arrivo di Sergio Rossetti, insegnante di educazione fisica interpretato da Michele Riondino, che porta con sé un passato irrisolto. A introdurlo nel cuore del paese è Michela, giovane locandiera interpretata da Romana Maggiora Vergano. Tra Sergio e Matteo nasce un legame che è insieme ricerca e dipendenza: il primo vede nel ragazzo l’occasione per tornare padre, il secondo trova in lui un mentore che lo incoraggia a liberarsi. Ma la loro alleanza finisce per incrinare l’equilibrio di Remis.
Strippoli costruisce un film che scivola tra le definizioni. A Remis non esistono innocenti o colpevoli, ma persone che si muovono come aghi di una bussola impazzita, attratte ora dal bisogno di protezione, ora da quello di ribellione. Ogni gesto può essere salvezza o ferita, a seconda dello sguardo.
La scrittura intreccia suggestioni bibliche – dal tredicesimo capitolo dell’Apocalisse alla figura dell’Anticristo – con le devozioni popolari italiane. Matteo, il ragazzo che assorbe il dolore, diventa così una superficie su cui proiettare paure opposte: angelo redentore per alcuni, creatura demoniaca per altri. L’enigma non sta in ciò che lui è, ma in ciò che gli altri diventano quando gli si avvicinano.
Girato tra Tarvisio e Sappada, il film usa la montagna come schermo e barriera. Qui la natura isola, custodisce e minaccia. Strippoli sceglie un realismo essenziale, dove perfino un abbraccio può contenere più pericolo di una lama. La verosimiglianza, non l’eccesso, rende devastante la frattura della comunità.
Anche il casting segue questa logica. Michele Riondino, mai toccato prima dall’horror, porta un corpo concreto, spiazzante in quel contesto sospeso. Giulio Feltri, quindicenne non professionista, offre una presenza grezza, che incrina i codici del genere. Paolo Pierobon presta al padre di Matteo un’autorità ferita, mentre Romana Maggiora Vergano dà a Michela il conflitto tra desiderio di fuga e fedeltà al villaggio.

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Il film ha richiesto anni per trovare la sua forma: dal Premio Solinas del 2019 a una distribuzione saltata a poche settimane dalle riprese, fino all’intervento decisivo di Fandango e Vision. Una gestazione lenta che ha affinato l’idea centrale.
La valle dei sorrisi non è un horror per spaventare. È un viaggio nell’istinto di anestetizzare il dolore, nella tentazione di scambiarlo per un difetto da eliminare. Strippoli lo dice senza alzare la voce: il dolore non si cancella, ci definisce. E rimuoverlo non ci salva, ci cambia.