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“Kill the Jockey”: il delirio visionario di Ortega tra cavalli, travestimenti e fantasmi del Sud

Luis Ortega firma un film allucinato e sfrenato, tra identità liquide, eccessi visivi e corse a vuoto nella psiche argentina. Un cinema che non consola, ma stordisce

Elena Marcheggiano Dal Forno by Elena Marcheggiano Dal Forno
12 Luglio 2025
in Cinema
Reading Time: 3 mins read
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Nahuel Pérez Biscayart in Kill the Jockey, regia di Luis Ortega. © Ufficio stampa del film

Nahuel Pérez Biscayart in Kill the Jockey, regia di Luis Ortega. © Ufficio stampa del film

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Il regista argentino Luis Ortega, quello di The Black Angel, torna dietro la macchina da presa e lo fa con un film che non chiede permesso a nessuno. Né alla logica narrativa né allo spettatore. Se cercate una trama pulita, potete anche smettere di leggere adesso.

Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart, una specie di David Bowie sotto psicotropi) è un ex fuoriclasse delle corse a cavallo, un’icona decaduta che vive a metà tra l’inquadratura e il blackout. Alcol, droga, abulia esistenziale. Ha una compagna incinta, un debito con un boss chiamato Sirena e una missione impossibile: vincere ancora una volta, nonostante tutto. Fallisce. Da lì in poi il film smette anche di fingere di voler raccontare una storia.

È il momento in cui Kill the Jockey, al cinema dal 3 luglio, si smonta e si ricompone a piacimento, come un videoclip sgangherato montato da un fan di Almodóvar dopo una maratona di cinema exploitation anni ’70. Ortega lascia andare ogni appiglio razionale: Remo cambia pelle, cambia nome, cambia genere. Diventa Dolores, forse. Viene inseguito da Malevo Ferreyra, una figura mitologica e nerissima, ex capo della polizia, incubo del passato argentino, simbolo di giustizia sommaria e repressione. Un cattivo da tragedia shakespeariana con accento sudamericano.

Ma non siamo in un thriller, né in un noir. O forse sì, ma rivisitato con la lente deformata del grottesco. Ogni scena è un piccolo teatro: balletti in slow motion, costumi da fantino glitterati, neon, specchi, fuoco sacro e cavalli che sembrano allucinazioni collettive. A un certo punto non si capisce più se stiamo guardando un film, un sogno, o una seduta di esorcismo laico.

Vale la pena? Dipende da cosa si cerca. Ortega non ha intenzione di compiacere. La narrazione è episodica, i personaggi sembrano apparizioni e gli unici punti fermi sono la musica vintage (grande colonna sonora tra classici argentini e iberici) e la fisicità incredibile di Pérez Biscayart, che tiene in piedi tutto anche quando il film sembra sul punto di esplodere. È il suo corpo, il suo volto smarrito ma famelico, a reggere il gioco: una presenza che ricorda il Charlot più disperato, quello che inciampa nella miseria ma non smette di danzare.

Kill the Jockey non è solo un film queer: è un film che si traveste. Da dramma sociale, da parodia, da cinema d’autore. Si prende il rischio dell’eccesso e spesso lo paga caro, specie quando l’emozione si perde in una smania formale che fa a pugni con la sostanza. Ma non importa. È cinema che sfida, non che consola. Come guardarsi allo specchio dopo una notte brava: non bello, ma vero. O almeno così sembra.

Ah, ultima cosa: se siete fan del “cinema d’autore strano”, quello dove la trama è opzionale e le immagini contano più dei dialoghi, segnatevelo. Se invece avete bisogno di un arco narrativo classico, un protagonista redento e una morale finale, non è il film per voi. Ortega ha altre priorità. Tipo farvi perdere l’orientamento.

Tags: Kill the JockeyLuis OrtegaThe Black Angel
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Elena Marcheggiano Dal Forno

Elena Marcheggiano Dal Forno

Elena è giornalista pubblicista dal 1994 e vegana dal 2011. Si occupa di vita in generale, cinema, arte, tennis, diritti degli animali. Quando non è al cinema è in viaggio. Spesso la cosa coincide. Scrive anche sul Corriere della Sera.

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