Il regista argentino Luis Ortega, quello di The Black Angel, torna dietro la macchina da presa e lo fa con un film che non chiede permesso a nessuno. Né alla logica narrativa né allo spettatore. Se cercate una trama pulita, potete anche smettere di leggere adesso.
Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart, una specie di David Bowie sotto psicotropi) è un ex fuoriclasse delle corse a cavallo, un’icona decaduta che vive a metà tra l’inquadratura e il blackout. Alcol, droga, abulia esistenziale. Ha una compagna incinta, un debito con un boss chiamato Sirena e una missione impossibile: vincere ancora una volta, nonostante tutto. Fallisce. Da lì in poi il film smette anche di fingere di voler raccontare una storia.
È il momento in cui Kill the Jockey, al cinema dal 3 luglio, si smonta e si ricompone a piacimento, come un videoclip sgangherato montato da un fan di Almodóvar dopo una maratona di cinema exploitation anni ’70. Ortega lascia andare ogni appiglio razionale: Remo cambia pelle, cambia nome, cambia genere. Diventa Dolores, forse. Viene inseguito da Malevo Ferreyra, una figura mitologica e nerissima, ex capo della polizia, incubo del passato argentino, simbolo di giustizia sommaria e repressione. Un cattivo da tragedia shakespeariana con accento sudamericano.
Ma non siamo in un thriller, né in un noir. O forse sì, ma rivisitato con la lente deformata del grottesco. Ogni scena è un piccolo teatro: balletti in slow motion, costumi da fantino glitterati, neon, specchi, fuoco sacro e cavalli che sembrano allucinazioni collettive. A un certo punto non si capisce più se stiamo guardando un film, un sogno, o una seduta di esorcismo laico.
Vale la pena? Dipende da cosa si cerca. Ortega non ha intenzione di compiacere. La narrazione è episodica, i personaggi sembrano apparizioni e gli unici punti fermi sono la musica vintage (grande colonna sonora tra classici argentini e iberici) e la fisicità incredibile di Pérez Biscayart, che tiene in piedi tutto anche quando il film sembra sul punto di esplodere. È il suo corpo, il suo volto smarrito ma famelico, a reggere il gioco: una presenza che ricorda il Charlot più disperato, quello che inciampa nella miseria ma non smette di danzare.
Kill the Jockey non è solo un film queer: è un film che si traveste. Da dramma sociale, da parodia, da cinema d’autore. Si prende il rischio dell’eccesso e spesso lo paga caro, specie quando l’emozione si perde in una smania formale che fa a pugni con la sostanza. Ma non importa. È cinema che sfida, non che consola. Come guardarsi allo specchio dopo una notte brava: non bello, ma vero. O almeno così sembra.
Ah, ultima cosa: se siete fan del “cinema d’autore strano”, quello dove la trama è opzionale e le immagini contano più dei dialoghi, segnatevelo. Se invece avete bisogno di un arco narrativo classico, un protagonista redento e una morale finale, non è il film per voi. Ortega ha altre priorità. Tipo farvi perdere l’orientamento.