Trap, punk, nostalgia anni Novanta e ritorni d’autore: 65 giorni di musica a Capannelle, senza un’identità precisa. Forse è un pregio.
C’è chi lo considera l’ultimo festival urbano sopravvissuto in Italia. C’è chi dice che è un cartellone confuso, che cerca di accontentare tutti, e che proprio per questo non racconta più nulla. Rock in Roma, nel 2025, arriva alla sua ennesima edizione con una lineup lunga quanto un’estate intera e altrettanto discontinua.
Si parte il 13 giugno con Sfera Ebbasta, che ha il merito – e il limite – di portarsi dietro lo stesso pubblico da sei anni. Seguono Tedua, Noyz Narcos, Il Tre: nomi che vendono biglietti ma che sembrano messi in fila per riempire slot, più che per tracciare una visione. Il trap è diventato il nuovo pop? Forse sì. Ma la narrazione si è rotta da un pezzo, e i concerti lo riflettono.
Poi, a distanza di poche settimane, arriva Robert Plant. Il contrasto è evidente. Non tanto per l’età, quanto per l’atmosfera. L’ex Led Zeppelin sale sul palco con i Saving Grace e sembra voler ricordare che c’è stata un’epoca in cui la musica dal vivo non era solo una questione di volume e smartphone alzati.
In mezzo, Placebo, Massive Attack, Fontaines D.C., Calcutta, Yungblud, Subsonica, CCCP. Il risultato è un festival che non ha un vero centro, e che forse per questo riesce ancora a funzionare. Perché non ha paura di mescolare, né di contraddirsi. Un po’ come la città che lo ospita.
Capannelle come specchio
L’Ippodromo delle Capannelle non è certo una location glamour. Il suono rimbalza male, il prato si trasforma in polvere, i parcheggi sono un terno al lotto. Ma forse è proprio questo il punto: Rock in Roma è un festival che non finge.
Non ci sono installazioni instagrammabili, non ci sono visual da festival nordico, né promesse di esperienze immersive. Ci sono palchi, artisti, pubblico. E spesso, basta questo.
Una lineup piena di crepe – e di verità
Il cartellone 2025 sembra costruito per stratificazione, non per concept. C’è la nostalgia per chi ha vissuto i primi anni Duemila (Placebo), il ritorno dei padri storici del punk filosovietico (CCCP), l’eleganza soporifera dei Cigarettes After Sex, la velocità febbrile di Yungblud.
Ma non c’è una tesi da dimostrare. Il festival non prova a farti credere che “la musica unisce tutto”, né che “Roma è la capitale della musica live”. Si limita a ospitare chi vuole farsi sentire. È poco? Forse. Ma in un’epoca di narrazioni forzate, è qualcosa.
Rock in Roma propone 70 concerti. Alcuni bellissimi, altri dimenticabili.