Salmo è sparito. Ha lasciato Milano, ha spento i social, si è ritirato in una casa sulle colline della Gallura. Una zona dell’interno della Sardegna dove è cresciuto suo padre, dove la terra è dura, dove certe storie non si dimenticano. Nessun romanticismo. Solo bisogno di silenzio e di isolamento. Lì ha lavorato a Ranch, il suo settimo album. Un disco chiuso, asciutto, che prende forma in quell’angolo di isola dove tutto è più netto: la solitudine, la memoria, i rapporti umani.
Il disco ha esordito al primo posto della classifica FIMI. Primo anche tra i supporti fisici — CD, vinili, musicassette. È entrato nella Top 5 globale degli album di debutto su Spotify. Ma i numeri non spiegano l’urgenza che si sente nei brani. Ranch non è costruito per piacere: è pieno di storie familiari, di frasi secche, di immagini che stanno in piedi da sole. È un disco che non chiede di essere capito. Chiede solo di essere ascoltato.
Il brano più diretto è Crudele. Dentro c’è tutta la parte maschile della famiglia di Salmo: il bisnonno che ha fatto a pezzi un cugino e l’ha sepolto in giardino, il nonno con due famiglie e troppo alcol, il padre cresciuto con sei fratelli e una madre in una casa che sembra uscita da una favola nera. Alla fine del pezzo c’è lui, il rapper, il primo a uscire da quel ciclo. “Lo sai che chi brilla a volte è figlio dell’ombra?”, dice. È una frase semplice. Ma pesa.

Crudele è il punto più alto del disco. Ma non è un caso isolato. Ranch ha dentro diversi registri, tutti legati da una stessa intenzione: eliminare il superfluo. In Bye Bye torna il rap classico, con Kaos unico ospite. “Io non vi piaccio, non faccio tendenza / sono solo uno straccio, vi ho pulito la coscienza”. Poche barre, ma tagliano. Il beat è scarno, la voce è secca, l’impatto è quello di chi non ha più niente da dimostrare.
In altri brani, Salmo si muove verso un cantautorato obliquo. In Sangue amaro dice: “Il rap è morto a colpi di pistola e film crime”. In Bounce! torna a spingere sul suono, con un basso distorto e un verso che cita Di Canio per attaccare la deriva razzista dell’Italia. In Il figlio del prete, ispirato al caso Orlandi, si muove tra cronaca e invenzione. In Fuori controllo, cambia ancora: beat da rave, struttura irregolare. Non c’è un altro rapper italiano che possa permetterselo.
La parte finale del disco è più personale. In Mauri, Salmo riprende un versetto biblico e lo mette dentro una riflessione sulla carriera, sulla fede, sulla pace trovata da quando vive in collina. L’ultimo pezzo, Titoli di coda, è un elenco di ringraziamenti che si chiude con uno sketch comico. Ironizza sulle major discografiche, su chi cerca solo la hit. È un modo per sgonfiare la tensione prima della fine, ma anche per dire che no, questo disco non è stato pensato per vendere.
Tutto Ranch funziona così: alterna durezza e leggerezza, ombra e lucidità. Non ha paura di essere cupo, ma sa anche quando staccare. È uno dei pochi dischi recenti in cui si sente che l’artista ha fatto prima di tutto silenzio. Si è messo in ascolto. Della sua famiglia, della sua terra, della sua lingua.
In apertura c’è On fire. Parte con un campione di Ave Maria catalana cantata da Maria Carta. Organo, voce, un’atmosfera solenne. Poi entra Salmo: “Ave Maria piena di rabbia / fatemi uscire, sono il cane che abbaia”. È una scena chiara. Da una parte la religione, dall’altra il dissenso. E in mezzo, un uomo che prova a liberarsi.