Nel 2021, Squid Game fece la storia diventando lo show di maggior successo di Netflix, raggiungendo 142 milioni di spettatori nel primo mese. Ora, tre anni dopo, la seconda stagione promette di essere ancora più crudele. Già la prima era stata un fenomeno globale, un’analisi spietata di una società che soffoca nei debiti e insegue disperatamente una via d’uscita.
La parabola del creatore, Hwang Dong-hyuk, sembra uscita da un copione cinematografico: anni di rifiuti da parte dei produttori sudcoreani, fino al colpo di scena in cui Netflix ha deciso di scommettere su questa storia di sopravvivenza estrema. E così, da semplice “gioco del calamaro”—ispirato a un’infanzia trascorsa tra cortili e regole ferree—la serie è diventata un fenomeno globale, con un impatto che va ben oltre l’intrattenimento. La Corea del Sud, con il suo passato segnato da dittature, democratizzazione e un boom economico senza precedenti, celebra questo trionfo come la punta di diamante di una strategia culturale iniziata negli anni Novanta. In quel periodo, il governo sudcoreano investì massicciamente nelle industrie creative, trasformandole in strumenti di crescita economica e influenza internazionale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
La seconda stagione di Squid Game, disponibile su Netflix dal 26 dicembre, riprende il racconto con la stessa crudele ironia e brutalità che hanno caratterizzato la prima. Al centro rimangono i temi fondamentali della serie: disuguaglianza, sfruttamento e avidità. Seong Gi-hun, l’unico sopravvissuto della stagione precedente, interpretato da Lee Jung-jae — l’iconico Giocatore 456 — non si accontenta della sua vittoria: torna per fermare il massacro. Tuttavia, quando avverte i nuovi partecipanti che chi perde muore, nessuno gli crede, almeno fino a quando la realtà non li colpisce con tutta la sua violenza. Alla fine, però, resta una sola domanda: lasceranno o raddoppieranno? Il finale, come sempre, non perdona.