Alcuni scorci di vita quotidiana su un piccolo pezzo di terra del New England. Una casa coloniale in costruzione nel 1911. Una coppia che si trasferisce lì subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Una giovane famiglia dei giorni nostri che abita quello stesso soggiorno. Dinosauri. Nativi americani. Benjamin Franklin. La straordinaria ambizione di Here, il nuovo film di Robert Zemeckis, è tutta qui: catturare secoli di vite e memorie che si intrecciano, mantenendo un punto di vista fisso, invariabile, ma non per questo immobile. Con Tom Hanks, alla loro quinta collaborazione, Zemeckis tenta l’impresa di raccontare il tempo – non solo come elemento narrativo, ma come esperienza emotiva e visiva.
Come accadeva con le ciminiere di Chicago in The Blues Brothers, o con la desolazione malinconica delle lande nebbiose in Cast Away, o ancora con l’immobilità ipnotica del treno che attraversa la neve in Polar Express, anche in Here l’ambiente è protagonista, parte integrante della narrazione. Stavolta, però, Zemeckis non usa il movimento per portarci da un punto all’altro. Qui tutto resta fermo: una stanza, una finestra, un salotto dove la vita si svolge davanti ai nostri occhi. Una telecamera immobile, un’unica prospettiva che sembra limitare lo spazio, ma che in realtà lo espande, trasformandolo in un microcosmo in cui si riflette l’intera condizione umana.
La storia si basa sulla graphic novel di Richard McGuire, un’opera già di per sé audace e sperimentale, che in sole sei pagine (poi estese nella versione del 2014) riusciva a condensare un secolo di vita su una piccola porzione di terreno. Zemeckis, insieme a Eric Roth (suo collaboratore su Forrest Gump), ne trae un film che, osa puntare in alto. Il cuore del film è rappresentato dalla famiglia Young, e in particolare da Richard (Tom Hanks), figlio di Al (Paul Bettany) e Rose (Kelly Reilly), che comprano la casa nel 1943. Al è un reduce della Seconda Guerra Mondiale, un uomo segnato nel corpo e nell’anima, che lotta contro il PTSD e l’alcolismo, ma che cerca disperatamente di prendersi cura della sua famiglia. Rose, invece, è la colonna portante della casa, una figura forte e amorevole che compensa le debolezze del marito. Seguiamo i Young attraverso decenni di gioie e dolori, dall’infanzia di Richard alla sua maturità, fino a quando incontra Margaret (Robin Wright), la donna che sposerà e con cui crescerà una figlia, Vanessa. Ogni generazione lascia il suo segno in quella casa, in quel soggiorno, che diventa il testimone silenzioso di un’intera saga familiare.
Attraverso i suoi salti temporali, Zemeckis ci mostra frammenti di altre vite che hanno attraversato quello stesso spazio: dai coloni che costruirono la casa, a un appassionato di aviazione degli anni ’10 (interpretato da Gwilym Lee) e sua moglie (Michelle Dockery), fino ai giorni nostri, dove una giovane coppia (Nikki Amuka-Bird e Nicholas Pinnock) si trova a crescere un figlio adolescente in un mondo sempre più incerto. E poi ci sono gli episodi brevi, quasi surreali: i dinosauri che un tempo camminavano su quella terra, i nativi americani che la abitavano prima dell’arrivo dei coloni, Benjamin Franklin che vi passò una volta, chissà come o perché. Ogni momento si intreccia agli altri, creando un affresco straordinario e multiforme.
La forza del film sta nella sua capacità di farci sentire connessi a tutte queste vite. Anche quando gli effetti visivi – e ce ne sono molti – rischiano di sopraffare l’intimità della storia, Zemeckis riesce a riportarci al centro, alle emozioni umane che stanno alla base di tutto. Gli effetti di de-aging, utilizzati per mostrare i personaggi attraverso varie fasi della loro vita, sono a volte imperfetti, ma quasi sempre funzionali. La colonna sonora di Alan Silvestri, una collaborazione storica con Zemeckis, accompagna perfettamente il senso di transitorietà del tempo.
Certo, c’è chi potrebbe dire che un film così non ha posto nell’attuale panorama cinematografico. Che il suo approccio contemplativo e il suo stile “antiquato” non siano adatti a un pubblico abituato al ritmo frenetico dei blockbuster e alle narrazioni frammentate delle serie tv. Ma forse è proprio questo il punto. Forse film come Here sono necessari proprio perché ci ricordano che c’è ancora spazio per opere che si prendono il loro tempo, che parlano di emozioni universali senza paura di essere troppo sincere o sentimentali.
Perché, in fondo, Here non parla solo della famiglia Young, o di quella casa nel New England. Parla di tutti noi. Di ciò che lasciamo dietro di noi, di ciò che rimane quando ce ne siamo andati. Ed è questo che lo rende, nonostante qualche imperfezione, un’opera straordinaria. Un film che forse non cambierà la storia del cinema, ma che potrebbe cambiare qualcosa in noi. E, in definitiva, cosa possiamo chiedere di più?