L’espressione The Sunshine Dreamer potrebbe diventare un simbolo, un mantra per chi cerca speranza nelle sfide impossibili. Racconta la storia di Ryan Benton, musicista e pioniere della scienza, un uomo che ha trasformato una diagnosi devastante in un inno alla vita. La distrofia muscolare di Duchenne, che porta progressivamente alla perdita di funzione muscolare e a un’aspettativa di vita drammaticamente breve, non sembrava lasciare spazio a grandi sogni. Eppure, Ryan ha trovato un nuovo capitolo grazie alle cellule staminali mesenchimali, un trattamento rivoluzionario, ma anche controverso, che gli ha permesso di continuare a suonare e, soprattutto, a vivere.
Il documentario, presentato al Rome Independent Film, (RIFF) però, non è una semplice celebrazione della scienza o della resilienza. Scava più a fondo, svelando una realtà che preferiremmo forse ignorare. Mentre Ryan si riappropriava della sua vita, fuori dalla sua stanza di ospedale si combatteva una battaglia più grande, quella contro un sistema sanitario che sembra progettato per frenare il cambiamento. Negli Stati Uniti, infatti, terapie come quella che ha salvato Ryan non sono accessibili. La ragione? Paura del rischio, dicono alcuni. Ma il film sussurra che la vera minaccia percepita è un’altra: il profitto delle grandi industrie farmaceutiche, che vedono queste innovazioni come un colpo al cuore del loro monopolio.
Certo, c’è qualcosa di eroico nell’idea di un sistema sanitario che cerca di proteggere i pazienti da false speranze. Ma quando vediamo Ryan con la chitarra in mano, a inseguire il sogno che sembrava negato, ci chiediamo: a quale costo? L’America ha costruito la sua identità su una narrativa di innovazione e progresso, eppure qui, nelle stanze dove si decide chi può accedere alla cura, prevale un immobilismo che lascia troppi senza speranza.
The Sunshine Dreamer è più di una storia personale. È un’esplorazione di come raccontiamo i nostri progressi scientifici, di come romanticizziamo il nostro rapporto con l’innovazione. Ryan non è solo un paziente; è il simbolo di una generazione di persone lasciate in attesa, bloccate da una burocrazia che non vuole rischiare. Ma il film non è un manifesto politico. È un ritratto intimo, fatto di piccole vittorie quotidiane e di musica, quella musica che per Ryan è sempre stata la vera terapia.
Alla fine, più che un’accusa al sistema, il documentario è una domanda aperta: cosa saremmo disposti a sacrificare per lasciare spazio al cambiamento? È un messaggio che non punta solo il dito contro chi è al potere, ma che ci chiede di riflettere sul nostro ruolo, sulle storie che scegliamo di raccontare e su quelle che lasciamo nell’ombra.