C’è un momento, in ogni episodio di Qui non è Hollywood, in cui ci si sente a disagio, quasi a disagio fisico, come se il proprio sguardo fosse invadente, indiscreto. È un’intuizione voluta e calcolata dal regista Pippo Mezzapesa, che non esita a mettere lo spettatore in una posizione scomoda, quasi colpevole. Dopo il cambio del titolo, omettendo ogni riferimento diretto alla cittadina pugliese, la miniserie in quattro puntate disponibile su Disney+ dal 30 ottobre, ci riporta nel cuore di una tragedia familiare e collettiva, ma soprattutto una critica spietata alla morbosa fascinazione del pubblico per la sofferenza e il crimine, un riflesso della società e dei media che hanno trasformato il piccolo paese pugliese di Avetrana in un circo mediatico, in una macabra vetrina per il dolore.
L’evento scatenante è tristemente noto: l’omicidio di Sarah Scazzi, quindicenne uccisa nel 2010. Una vicenda crudele che ha scosso il paese e infiammato l’attenzione mediatica, arrivando a trasformare le strade di Avetrana in un palcoscenico di dolore e speculazione. E proprio su questo aspetto punta la serie, che inizia con immagini forti di turisti e curiosi che passeggiano per il paese, macchine fotografiche alla mano, in cerca del “luogo del delitto,” come se fossero in visita in un museo dell’orrore. Lo spettatore è così subito catapultato in una realtà inquietante, dove il confine tra tragedia e spettacolo è sottilissimo e viene superato con leggerezza, lasciando dietro di sé solo desolazione.
La storia è raccontata attraverso gli occhi dei protagonisti: la vittima, la cugina Sabrina Misseri, la zia Cosima Serrano e lo zio Michele Misseri. Un artificio narrativo costruito con cura, che non solo approfondisce ogni personaggio, ma porta chi guarda a percepire la dissonanza tra la realtà vissuta e quella rappresentata dai media. La scelta di svelare la vicenda tramite prospettive multiple ha consentito a Mezzapesa di dar vita a un mosaico affilato e complesso, in cui ogni dettaglio arricchisce un quadro più grande e implacabile: una riflessione pungente sull’invadenza dei media, capaci di divorare tragedie e risputarle come intrattenimento senz’anima.
Il casting è stato una carta vincente per il regista, che ha puntato su una somiglianza fisica quasi ipnotica con i veri protagonisti, andando ben oltre una semplice resa estetica. Vanessa Scalera (Cosima), Paolo De Vita (Michele) e Giulia Perulli (Sabrina) non si limitano a interpretare, ma sembrano incarnare davvero quei volti che l’Italia ha visto ossessivamente in TV. Ogni minimo particolare – dallo sguardo sfuggente di Michele, alle espressioni enigmatiche di Sabrina, fino alla glaciale freddezza di Cosima – è studiato al millimetro per riportare sullo schermo non solo delle persone, ma delle vere e proprie icone mediatiche, familiari a un intero paese e ancora scolpite nella memoria collettiva.
La serie esplora l’ossessione italiana per il delitto e la cronaca nera, sollevando una domanda inquietante: perché ci sentiamo irresistibilmente attratti dalle vite degli altri, pronti a calarci negli abissi delle tragedie private come fossero episodi di una fiction? È qui che Mezzapesa affonda davvero il colpo, mostrando come la tragedia di Sarah e della sua famiglia sia stata ridotta a materiale da consumo, spremuta fino all’ultimo per riempire i palinsesti, gli articoli e i talk show. La narrazione distorce il dramma umano, privandolo di ogni compassione e trasformandolo in puro intrattenimento, senza lasciare scampo alla dignità dei protagonisti.
L’uscita della miniserie ha riacceso le polemiche: molti abitanti di Avetrana si sono sentiti ancora una volta esposti, messi in piazza come oggetti di curiosità morbosa. Il paese, “bruciato dal sole, nella periferia pugliese, a ridosso del mare”, come recita la presentazione della serie, rimane un simbolo involontario del turismo nero e della manipolazione mediatica che imprigiona la comunità in un passato difficile da lasciarsi alle spalle. Avetrana fatica a ritrovare un’identità oltre quella “macabra cartolina” che il caso ha inciso nella memoria collettiva.
Qui non è Hollywood è un viaggio profondo e critico nelle ombre della società moderna, un grido d’allarme sul potere distruttivo della macchina dell’informazione. Matteo Rovere, uno dei produttori, ha spiegato come l’obiettivo del progetto non fosse tanto riportare la cruda cronaca dei fatti, ma esplorare le radici e le conseguenze di una tragedia che ha messo a nudo il lato oscuro dell’animo umano. “Rappresentare il male non significa accettarlo o celebrarlo”, spiega Rovere. “Significa piuttosto guardare negli occhi i meccanismi perversi che regolano la nostra società, per provare a comprenderli e forse cambiarli”.