Maura Del Pero esordisce in concorso al Festival di Venezia, con Vermiglio, nome di un piccolo paese di montagna che si trova in Trentino.
Vermiglio- la sposa di montagna racconta dell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale in una grande famiglia: nel 1944 e le figlie del maestro del paese, Ada, Flavia e Lucia, stanno aprendosi alla vita mentre sullo sfondo incombe la guerra. Tutto è lontano dal conflitto ma con l’arrivo di un soldato fuggito e accolto, con l’amore, il matrimonio e una figlia con Lucia , per un paradosso del destino la famiglia- la sua comunità- perderà la pace nel momento stesso in cui il Mondo sta per ritrovare la propria.
Raccontato in quattro capitoli, ciascuno ambientato in una stagione diversa, il film racconta un villaggio di montagna dove dopo quattro stagioni si può morire e rinascere. Elemento centrale della famiglia la complessa figura del padre, maestro eclettico e padre severo. Una storia corale interpretata da Tommaso Ragno, Giuseppe De Domenico, Roberta Rovelli, Martina Scrinzi e Sara Serraiocco.
La regista descrive l’emotività di un lessico famigliare (suo padre era un maestro di montagna di quei villaggi) tramite i piccoli gesti di una comunità montana che permea in tutto i personaggi: dal modo di camminare, muoversi, al raggiungere la scuola, al sostanziale isolamento.
Una koinè costituita da forme, costumi, tradizioni che hanno una loro rappresentazione armonica e mosaicizzata nelle valli. Sappiamo le difficoltà per il cinema di rappresentare il mondo rurale, i rischi della nostalgia oleografica del controverso rapporto “naturale” tra l’uomo e la sua terra, stravolgendo la Storia- in maiuscola- a vantaggio del mito. L’Antropologia visuale, nata nella seconda metà dell’Ottocento, aveva studiato gli ambiti in cui la cultura umana era in grado di esprimersi attraverso i segni visivi.
Oltre l’oggettività del fenomeno osservato, siamo nella elaborazione capace della narrazione visiva. La profondità emotiva, il ritmo deliberato del racconto permettono al pubblico di immergersi nel “mondo del villaggio”, un “sociale” fatto di storie personali.
La regista limita il dialetto stretto, elemento di un archetipo rappresentativo, ma usa una lingua italianizzata che conserva sempre come modulario una forma e un messaggio simbolici. La scelta di non entrare nel tema della guerra se non dei suoi effetti, dalla fuga, alla attesa dei figli dal fronte, ai lutti è chiara come è impossibile dimenticare lo sfondo: con l’armistizio dell’8 settembre del 1943 anche in Trentino inizia una nuova, drammatica fase, i tedeschi occupano i punti nevralgici della città e delle valli e il 10 settembre Hitler proclama la Operationszonen Alpenvorland per cui le attuali province di Trento, Bolzano e Belluno entrano a far parte del Reich e dipendono direttamente dal Führer.
Se la guerra qui è invisibile, senza bombe e battaglie, non lo è il costo su coloro che la vivono con maestri e preti che hanno sostituito i padri insieme a donne doppiamente gravate da norme sociali ma resistono simbolicamente anche grazie alla maternità, tema che sembra attraversare filmografia di Maura del Pero che precedentemente con Maternal ha raccontato una storia di madri bambine in un istituto di suore.
Possiamo indagare e riflettere sul senso di raccontare questa storia, se incidere sulla memoria non significa raccontare la realtà, ma raccontare un tempo, una nostalgia non intesa come nostos bensì come deposizione di quel vissuto nella memoria. Nel film la stessa tradizione che viene posta come immagine esemplare, all’interno del percorso di una immaginazione complessiva, costituisce quello stesso immaginario che si è vissuto all’inizio del Novecento in ogni luogo rurale e contadino. Tra religiosità e cultura popolare, dunque l’antropologia del fatto è l’antropologia del dato, la misura del tempo, quel tempo antico, contadino.
Ma Vermiglio non offre l’immaginario del recupero del passato convertito in realismo, nella neve che attutisce ogni suono, la frenesia confusa dell’attività umana viene abbandonata, come non fosse importante e il giovane fuggiasco dell’estremo opposto dell’Italia è probabilmente il volto di una modernità- ancora acerba e instabile- costretta a confrontarsi con il rigore e le stagioni della montagna. L’idea forse che il perfetto equilibrio tra uomo e ambiente sia stato raggiunto in un’epoca ormai superata.
Resta la memoria di quelle stagioni che non diventa indifferente al Tempo.