Nell’anno delle elezioni presidenziali, il film Civil War con i suoi trailer pubblicitari sembra voler raccontare il collasso “della più grande democrazia del mondo”: un’America dilaniata da una nuova guerra di secessione e tenuta in ostaggio dal suo stesso Presidente.
Le forze occidentali secessioniste, guidate dal Texas e dalla California, assediano Washington in procinto di cadere. In questo contesto la ulteriore messa a fuoco, per giocare con le parole, è affidata ad un gruppo di giornalisti veterani e foto-reporter che, partendo da una New York senza acqua, attraversano i vari Stati per arrivare a Washington nell’assalto finale che dovrebbe decapitare la tirannia.
Il regista Alex Garland , Ex machina, assume come chiave di salvezza la neutralità dell’occhio, seppur innorridito o adrenalico, delle fotografie, come strumento di racconto. Non un film distopico ne’ tantomeno un film di guerra ma piuttosto un road movie che ribaltando il mito e l’icona del “sogno americano”, si rivolge più in generale al degrado della Democrazia, non solo a Stelle e Strisce.
Le immagini iniziali di Capitol Hill sono un segno certo ma, vogliamo sperare, non didascalia e questa parabola non un sequel ma solo un probabile e futuro parallelo se il Blocco delle non elezione avesse vinto. Nell’occhieggiare alla cronaca contemporanea statunitense dalle reali milizie indipendentiste fino al culmine di Capitol Hill, celebrata principalmente dai media come un tentato Golpe trumpiano, ma priva – come la nuova candidatura dello stesso dimostra – di una condanna dei tribunali se non verso i piccoli gruppi o su molti “sanculotti” naif che immaginavano che quella occupazione fosse il riscatto del popolo e dei padri fondatori.
Tante foto di quel giorno non capaci da sole di esprimere un chiaro segno storiografico e rimandando l’ambiguità di chi siano i padri e figli della Nazione americana. Un tema che anche quando è stato provato a trattare sullo schermo da grandi produzioni e registi (Scorsese fra tutti), sollevando il velo sulla linearità pionieristica/capitalistica/neoliberista, non è stato visto certamente di buon occhio dall’informazione produzione mainstream.
Civil War simboleggia una funzione di monito e di avvertimento, nel farsi anche emblema della contraddizione moderna statunitense ma anche del limite della rappresentazione(e della rappresentanza) contemporanea, lanciando messaggi controversi pure nella esplorazione e – con grande scrittura – nella caratterizzazione dei personaggi con dei reduci dai conflitti di mezzo mondo: la pluripremiata fotoreporter(Kirsten Dunst), il suo collega della Reuters (Wagner Moura), il veterano del New York Times ( Stephen Henderson), assieme a una giovane aspirante fotografa( Cailey Spaeny ).
Un grande lavoro sul suono d’ambiente che rendono il viaggio verso la “capitolazione” angosciante ma capace di definire i caratteri dei reporter. Grazie anche alla potenza scenica Il film non spiega i retroscena, né si sofferma sui dettagli che hanno portato al collasso statuale. Non abbiamo informazioni, siamo condotti a “vedere sul campo” non con delle dirette della Rete o Televisive reporter con il loro flusso continuo ma con dei fotografi di guerra che cercano lo scatto migliore capace di descrivere una guerra civile.
Quei frame sono parti di piani sequenza immersivi, corpo a corpo della visione della guerra. Non mancano richiami alla celeberrima foto di Robert Capa, che ritrae un miliziano morente durante la guerra civile spagnola e alle fotoreporter di guerra Elisabeth Miller, omonima della protagonista del Film, Lee Miller, la prima ad offrire un punto di vista fortissimo per raccontare lo sdegno, la sofferenza, la militanza di fronte alla assurdità dei conflitti.
Nel doloroso passaggio di testimone della famosa fotoreporter alla nuova guardia vediamo lo specchio del disfacimento delle certezze e del coraggio che sarà ricomposto della certezza del fotografare, dentro le sue ceneri, il kairos democratico.
Forse potremmo sperare in una universalità di questo film capace cioè di comunicare come il degrado comunicativo (per)formativo contemporaneo si nutre di identità immaginarie capaci di qualsiasi abiezione.”Siamo tutti americani” è una frase che non sembra più bastare, neanche a chi ha visto in questa retorica la giustezza di una società profondamente divisa tra etnie e gruppi sociali, in un controllo della democrazia che, nel rigetto di ogni roboante discorso, passa dalla canna del fucile. Sperando ancora che dentro la tragedia della guerra resti una verità che sia un ob(bi)ettivo.