INDECENZA E LA FORMA è un’elegia spietata sul potere all’interno della famiglia che penetra nelle ossa lasciandoti senza fiato. Un oratorio dissacrante. Un melologo per voce sola dove la parola si fa musica e la musica si trasforma in grido di rabbia feroce. Un fiume inarrestabile di parole e di immagini che compongono un affresco pasoliniano da incubo che si concentra sul rapporto distorto e malato tra madre- padre-figlio. Un triangolo familiare che dal momento stesso della creazione, il parto materno, delinea un destino di ostacoli emotivi capaci di scardinare la psicologia frantumandone la personalità e generando vuoto, solitudine e disperazione.
Unendo sacralità e perversione in un laccio inestricabile.
Un cordone ombelicale che strangola senza pietà un figlio-vittima lasciando senza respiro sia l’attore che lo spettatore.
Ho dato corpo e azione teatrale a un personaggio inesistente nel testo originale che rappresenta in senso fisico e metafisico il rapporto vittima -carnefice che si instaura tra madre- figlio e padre-figlio.
Difficile spiegare le difficoltà di riuscire a rappresentare ciò che si rifiuta di essere visto o ascoltato. Quasi impossibile da pronunciare. Una drammaturgia ipertrofica scomoda e respingente. Come era il suo film “Salò le 120 giornate di Sodoma”.
Un Pasolini capovolto che esce allo scoperto mostrando la parte più fragile di sé stesso. Un vero e proprio sacrificio umano che si svolge davanti agli occhi dello spettatore al di là di qualsiasi giudizio o giustificazione. Un Pasolini sacrificato davanti alla platea della Natura dell’uomo. Un testo che vuole superare tutti i limiti della decenza verbale e fisica scompigliando le carte del nostro destino e generando il caos che ci coinvolge tutti. “Io sono l’inferno, perché ci sto”.