La prima cosa bella di questo film è stata la possibilità offerta ai giornalisti di tornare in sala a vedere il cinema in anteprima, come ai vecchi tempi. La magia della sala è e resta ineguagliata, ce lo siamo detti subito, appena usciti, quasi che vedere “qualcosa” sul grande schermo fosse quasi secondario.
Quindi, andate in sala. Quanto a cosa vedere certamente Woody Allen rimane, nonostante le controversie che lo circondano e le accuse che lo riguardano, uno degli autori più prolifici e interessanti della storia della cinematografia.
In questo Rifkin’s Festival, il regista americano ci conduce in una lunga ed ironica passeggiata attraverso i suoi registi preferiti, Fellini, Godard, Truffaut, Bunuel, Bergman e Welles, dentro i meandri della sua vita coniugale e professionale. Non c’è nulla di nuovo in questo film di Woody, ma la grazia e la spensieratezza con cui ci porta nei suoi deliri, attraverso la figura del suo alter ego, Mort Rifkin (Wallace Shawn), valgono la pena di pagare il biglietto perchè nonostante alcune scontatezze di fondo, il film è gradevole e mai banale.
Sulla fotografia ha detto: “Realizzare Rifkin’s Festival è stata una grande gioia, soprattutto grazie a Vittorio Storaro e alla sintonia che ci ha legati durante le riprese. Spero che questo film, in un periodo così difficile, restituisca al pubblico il grande piacere di tornare in sala”.
Tornando alla trama, Rifkin è un insegnante un po’ agèe che colto dal sospetto che la moglie (Gina Gershon) lo tradisca con un giovane regista emergente (Louis Garrel), la raggiunge nella splendida San Sebastian, in Spagna, dove avrà modo di osservare la situazione dal di dentro. La moglie infatti è l’addetto stampa del regista che presenta nella città basca il suo film, nel famosissimo Festival di San Sebastian. Spinto dalla curiosità di analizzare cosa siano diventati i festival, Rifkin-Allen scopre la pochezza della critica, massacra i giornalisti lecchini e nel contempo si rende conto che il suo matrimonio è finito davanti al fascino e alla gioventù dell’aitante regista francese, il più banale dei clichè. Lui pure però non perde tempo e con la scusa di qualche dolore psicosomatico si innamora, seppur platonicamente, della bella dottoressa che comunque lo ascolta, lo coinvolge nella propria vita e gli restituisce l’illusione che una dinamica d’amore possa ancora avvolgerlo e incantarlo.
Nel cercare di comprendere la moglie e anche il proprio dolore scopriamo che Mort Rifkin è preda di un’ansia da prestazione epocale, ovvero vorrebbe scrivere un romanzo, il suo grande romanzo, ma non si accontenterebbe di produrre qualcosa che non sia simile ad un capolavoro, un Dostojevski come minimo! Di qui il suo essere in un perenne stato di blocco produttivo che lo spinge a non entrare mai in competizione con i mostri sacri della letteratura e quindi doversi accontentare di essere “solo” un ottimo insegnante di cinema. Incapace di andare oltre sia al cinema che in letteratura Mort deve fare i conti con l’essere un borghese piccolo piccolo con delle aspirazioni non sostenibili.
Il film è ricco, ricchissimo di citazioni cinefile che non tutti potrebbero comprendere e capire, quindi sarebbe il caso di farsi qualche sana ora di visione di tutti i Maestri citati, per apprezzare pienamente l’ironia e l’autoironia che Woody mescola a mani basse ogni 10 minuti.
Il film esce il 6 maggio grazie a Vision Distribution, gli appassionati e i malati di cinema sapranno naturalmente riconoscere e citare tutte le scene rifatte da Rifkin nei suoi deliri, e anche rivedere in alcuni punti Vicky, Cristina, Barcelona o Midnight in Paris, o anche Manhattan. Una sorta di “summa” alleniana che in 92 minuti lascerà, come sempre, un sorriso ironico e molti pensieri in testa.