“Più sei personale e sincero, più sei creativo” ha detto una volta Martin Scorsese citato dal neo premio Oscar Bong Joon-ho, vincitore qualche giorno fa di 4 statuette con il suo capolavoro Parasite.
Il punto è tutto qui, mi conferma Daniela Lancioni, la bravissima e preparatissima curatrice della mostra dedicata a Jim Dine inaugurata l’11 febbraio scorso.
“Tutta l’arte a ben guardare – ha detto – non parla d’altro che dell’artista che, parlando di sè stesso, parla al mondo. E noi poi ci rispecchiamo dentro”.
Prima di invitarvi ad andare ad immergervi, letteralmente, come in un bagno di suoni e colori, nel mondo personale di Jim Dine, la premessa è d’obbligo. Questa è una mostra che va visitata a lungo, con calma e con la voglia di leggere tutto quello che i curatori hanno scritto. Personalmente ho avuto l’onore e il privilegio di visitarla con Daniela stessa, che prima di essere una professionista preparatissima è un’amante dell’arte e di Jim Dine in particolare. Dico questo perchè una antologica così importante su questo artista americano che non ha eguali al mondo è il frutto di oltre un anno di lavoro e di relazioni museali complesse, come quella con il Pompidou di Parigi, il Whitney di New York, Ca’ Pesaro di Venezia e Jim stesso che ha creato un’opera on-site proprio mentre allestiva la mostra a Roma. Mettiamola così, questa è una mostra-privilegio di cui essere davvero grati.
Parliamo allora di Jim Dine, che a quasi 85 anni non ha nessuna intenzione di chiudere il suo lavoro e, anzi, ha una vitalità che impressiona. Ancora sta creando e progettando, meravigliosamente, affrontando ancora sè stesso. Come sia possibile? Lo dice lui. I am a worker. Sono un lavoratore, e posso parlare solo di ciò che conosco, ovvero me.
Non è un caso che l’opera d’esordio sulla scena sia un happening che si intitola proprio The Smiling Workman, del 1959. Da lì inizia una serie di performance tra cui quelle inventate con Oldenburg e Kaprow, creazioni, mostre, omaggi, tutti commentati proprio per l’occasione dallo stesso Dine e che il visitatore potrà ascoltare con delle cuffie apposite.
La mostra consta di ben otto sale, estremamente articolate, in un percorso pressochè cronologico perchè una così ambiziosa personale necessita di spazi e tempi che rendano davvero il senso di chi dalla provincia dell’Ohio è arrivato a New York a soli 23 anni per sovvertire i canoni artistici della sua epoca. Un lavoro radicale ed innovativo che ha avuto grande impatto sulla cultra visiva contemporanea, in particolare su quella italiana degli anni ’60. Perciò non stupitevi se passeggiando tra le sale vi viene in mente Duchamp, Beuys oppure Schifano, oppure Fontana, finanche Tracey Emin, la Abramovic oppure arrivate al cinema con Shining. Se ad un certo punto pensate a Jim Dine come a ciò che è Roberto Bolano nella letteratura va tutto bene.
Si comprenderà così come passando da una sala all’altra sembri quasi di saltare da un Jim ad un altro. Dine è una sorta di inquieto sperimentatore di ogni mezzo, e appena gli happening cominciano ad essere di moda lui ne fugge immediatamente, quasi rinnegandoli, rifiutando anche di appartenere ad una qualunque categoria od establishment dell’arte contempranea. Non ha mai accettato infatti le etichette di Pop Art o Dada, rimanendo fedele ad un suo percorso che in effetti è totalmente personale. Attraversando sè stesso passa dalle perfomance alla pittura, alla scultura, alla scrittura esplorando costantemente le sue paure o le sue ossessioni, come quella su Pinocchio, nell’ultima maestosa sala dedicata. Nonostante la popolarità, i lavori di Dine restano “ineducati” e “ineleganti” come spesso sono stati catalogati, in virtù di una totale indipendenza dell’artista dalle correnti e dalle categorie della critica.
Sono oltre 80 le opere presenti al Palazzo delle Esposizioni e vanno dal 1959 al 2018, provenienti da molte collezioni pubbliche e private, al di qua e al di là dell’oceano, e alcune dalla stessa collezione di Dine. Vi sono anche le sculture in alluminio, i celebri Cuori, la Black Venus del 2001 ispirata alla Venere di Milo e due autoritratti: la testa di Head del 1959 e il dittico Two Large Voices Against Everything del 2016 e anche la celeberrima Shoe del 1961.
Cosa è cambiato tra il primo Jim e l’ultimo?
“Nulla, sono sempre io. Sono solo cresciuto e migliorato, come uomo e come artista”, risponde Dine, che vive ormai da tempo a Parigi e che sta già lavorando a una nuova mostra per l’autunno nella capitale francese. “Vivo qui, in Europa – racconta – non perché costretto, ma perché è una fonte di ispirazione e perché mi sento a mio agio, cosa che non sono negli Stati Uniti. Non so il motivo – mette le mani avanti – Oggi sono più libero, posso fare quello che voglio. No, non perché sono un grande artista, ma perché sono anziano. Anche perché – sorride – io non lo so se sono davvero un grande artista. Sono invece assolutamente certo di avere 85 anni”. Dine tornerà a Palazzo delle Esposizioni, il 18/3, per il reading House of Words con Fabrizio Ottaviucci al pianoforte e Daniele Roccato al contrabasso. Un’occasione imperdibile per incontrarlo ed ascoltare le sue poesie.