Applaudito alla Berlinale, Selfie, il nuovo film documentario di Agostino Ferrente è uscito il 31 maggio al cinema. Come nei suoi lavori precedenti, firmati con Giovanni Piperno, Intervista a mia madre e Le cose belle, il regista di origini pugliesi dimostra ancora una volta la sua capacità di esprimere attraverso sceneggiatura e regia quello che è un suo sguardo lucido su realtà sociali prive di riferimenti certi e immerse in un clima di malessere crescente. Al centro della scena Alessandro e Pietro, due sedicenni del Rione Traiano, un quartiere periferico di Napoli segnato da una tragedia: la morte di Davide Bifolco, loro amico, ucciso nel 2014 da un carabiniere che lo ha scambiato per un latitante. Il 6 giugno è in programma al Nuovo Cinema Aquila una serata evento dedicato al film. L’inizio della proiezione è alle 20, con un’introduzione a cura dello stesso regista in sala.
TheSpot.news ha intervistato il regista.
Come è nata l’idea di fare un film come Selfie?
Per molto tempo avevo abbandonato l’idea di girare documentari, in particolare su Napoli. Dopo l’episodio della morte di Davide, è scattato il solito accanimento mediatico sulla città. L’uccisione di un ragazzino senza precedenti penali e che sognava di diventare calciatore è diventato carne da macello per talk show, oggetti di dibattiti sterili tra sociologi, scrittori e politici da salotti televisivi. E’ stato in quel momento che ho deciso di dare un punto di vista diverso. Così ho proposto ad Alessandro e Pietro di auto-riprendersi con il loro iPhone per raccontare la realtà del loro quartiere e dei suoi abitanti dall’interno.
Il racconto per immagini è affidato a un telefonino e alla pratica tutta contemporanea del selfie. Perchè?
Ho scelto uno strumento agevole che tutti gli adolescenti sanno padroneggiare, anche in considerazione del fatto che oggi Iphone e smartphone hanno una risoluzione molto alta. Un metodo che consente una restituzione della realtà attraverso la stessa realtà, senza filtri e priva di stereotipi e pregiudizi a cui siamo abituati. Con affianco la mia presenza costante, ho chiesto ad Alessandro e Pietro di inquadrarsi come se fossero davanti allo specchio in cui vedere riflessi se stessi e la propria vita. Ho suggerito di posizionarsi di lato, in modo dare una auto rappresentazione di loro stessi e di quello che si svolgeva alle loro spalle. In questo modo è emerso il loro passato, la loro cultura, la loro famiglia, mentre rimangono fuori le inquadrature di un futuro dove il crimine sembra l’unica speranza per tirare avanti. Il Rione Traiano diventa come la siepe dell’infinito di Leopardi che separa il confine tra legale e illegale, tra il bene e il male.
E come hai trovato i protagonisti della tua storia?
Non ho cercato aspiranti giovani filmmaker ma due ragazzi del Rione Traiano in grado di farsi delle riprese e che volessero raccontare il loro quartiere. Alessandro e Pietro sono molto amici e per loro l’amicizia è lo scudo che li protegge dalla criminalità. Sono eroi che hanno scelto un lavoro onesto in un quartiere dove il crimine sembra l’unica speranza per poter tirare avanti.