John McEnroe come – forse – non l’abbiamo mai visto. O analizzato. Perchè come dice Gil de Karmadec, cineasta appassionato di tennis, citando Jean-Luc Godard all’inizio di questo docufilm, “il cinema mente, lo sport no”.
Cosa si nasconda allora dietro la rabbia, l’isteria, ma anche la tecnica praticamente perfetta, di uno dei più grandi geni tennistici degli ultimi 50 anni lo scopriamo in questi 90 minuti di assoluta e pura gioia cinematografica legata alle vicende di John McEnroe al Roland Garros di Parigi, il più importante torneo sulla terra rossa della stagione tennistica.
De Karmadec aveva a quel punto speso molto tempo ad osservare i gesti dei giocatori di tennis, riprendendo ed analizzando la tecnica mentre si allenavano, per poi rendersi conto che sul campo facevano tutt’altro. Come dire la teoria è una cosa, la pratica è un’altra. Così decide di dedicarsi solo a John, solo in partita e solo al Roland Garros. Mette tre telecamere in punti strategici per riprendere ogni respiro dell’americano per poi analizzarne con la tecnica del rallenty ogni movimento, ogni gesto.
La voce-guida di Mathieu Amalric ci guida così a ritroso nel tempo in un percorso di emozioni legate a doppio filo al bizzoso temperamento del campione americano e ai suoi incredibili gesti tennistici, fatti di volèe ai limiti del possibile, di un servizio pressochè inimitabile e di un bisogno di esprimere la sua personalità spesso oltre il consentito. Leggendarie sono le sfuriate contro gli arbitri, le violente manifestazioni ai cambi campo, la nervosa e complessa attitudine durante i match. Di quanto cinema John possa produrre in un solo incontro se ne accorge anche uno dei redattori de Le Cahiers du Cinema che assiste dalle tribune al match del secolo ovvero la finale tra McEnroe e Lendl del 1984. Ma soprattutto se ne accorge Tom Hulce, l’attore che interpreta Mozart nel film Amadeus che dichiara di aver preparato la sua parte proprio ispirandosi alla mimica di John.
Ciò che è intrigante qui, è la ricerca semantica dietro e dentro John. Quell’innato talento bisognoso di essere contraddetto. Quel genio che quasi non voleva farsi amare, nè dal pubblico, nè dagli sponsor, quella capacità di produrre vincenti subito dopo sfoghi memorabili. La meraviglia che resta alla fine della visione è una sorta di legame sintattico tra John e la telecamera, quasi un rapporto di coppia amore/odio simboleggiato dalla racchettata violentissima al cameramen che lo riprende alla fine della sconfitta subita con Lendl in quella che rimarrà la partita-rimpianto più grande della vita.
Al tempo chi scrive aveva 13 anni. E ancora ricordo come contro tutti e tutto – tifavo McEnroe già da anni – stavo pregustando finalmente la vittoria della pecora nera del tennis. Tra pecore nere, ovviamente, ci si capiva. E invece, dopo oltre 4 ore di gioco, con Mac che si presentava con 33 vittorie e zero sconfitte quell’anno, dopo aver dominato in modo monumentale i primi due set e avermi fatto già festeggiare in anticipo, alle 19,38 della sera, Mac dico, metteva fuori una facile volèe di dritto e regalava a Ivan il terribile il suo primo Slam. Furono pianti dirotti, a Parigi e a casa mia.