Quando ho ricevuto l’invito ad intervistare Angelo Orazio Pregoni, naso d’arte, perfume maker di talento, oltre che scrittore, ero scettica. Quanto avrei resistito nella tana di un celebrato e misterioso mago dei profumi? Avrei cominciato a starnutire come accade quando transito per caso nel reparto cosmesi e profumi di un centro commerciale o in metro, circondata da fragranze agro-dolci, speziate, miste a fiati di cene mal digerite, a vapori di stanchezza, a suole gommate traspiranti poliestere in umido? Mi ponevo ancora queste domande mentre varcavo la soglia di casa Pregoni. Ad accogliermi c’erano la figura alta di nero vestita, Pregoni appunto, e Carlo Magno, uno splendido esemplare di gatto Maine Coon.
Pochi secondi per resettare la mente, liberarla dal viziato dialogo interiore, accomodare le narici e predispormi con piacere alla conversazione con quell’uomo di rare cordialità ed eleganza. La sua dimora è un’oasi per gli amanti del design d’autore. Un’abitazione sì, ma anche mostra permanente di manufatti artistici unici, realizzati dallo scultore e designer Marco Ventura, fine interprete del filone steampunk . Una scenografia avvolgente di nuance e di arredo: ogni angolo è interazione di linee, pieghe e colori che costringono lo sguardo in punti di fuga e ritorni onirici. Il tempo della meraviglia lo celebra Carletto, il gatto, che invita alla carezza e alla seduta sul divano. La conversazione si accende spontanea, si fa a tratti dibattito, spaziando dalla filosofia all’antropologia, al racconto intimo, spesso a registratore spento.
Quando hai cominciato la tua attività di naso e come la descriveresti? Me ne dai una definizione?
Ti rispondo partendo dal secondo quesito. Il termine in italiano è profumiere, ma di solito è confuso con colui che vende i profumi. Sono una via di mezzo tra un chimico ed un artista. Per quanto non siano richieste espressamente competenze da chimico, se ne acquisiscono necessariamente con il tempo, almeno quelle funzionali al lavoro di naso. Non mi assumo quindi meriti da chimico, me ne assumo come artista dell’olfatto. Nella moda potremmo fare una distinzione tra stilista e sarto. Spesso lo stilista si avvale della capacità del sarto per verificare la realizzabilità di un’idea. Nel mio caso, i profumi li realizzo io, ma non mi precludo la possibilità di confrontarmi con dei chimici, anzi utilizzo qualsiasi possibilità derivi dalla chimica per sfruttarle in habitat artistico. Il naso opera partendo da un punto di vista creativo, il chimico opera nell’ambito della possibilità realizzativa dell’idea. Detto questo, non c’è un modo per diventare un naso. Le prime esperienze lavorativa le fai perché sfrutti una dote legata al senso dell’olfatto, ma avere un buon naso non significa essere capaci di concepire o creare un profumo. Sicuramente all’interno della categoria professionale dei nasi, che numericamente sono tanti quanti gli astronauti, non tutti siamo o pensiamo di essere la stessa cosa. Per me essere definito naso significa aver prima costruito un’identità: questa è propriamente un’identità artistica. Per questo il naso deve possedere sia la capacità olfattiva, che la tecnica, che la sensibilità artistica. Per sensibilità artistica intendo non certo ‘il soffro quindi sono’. Creare un profumo è per me fare arte: in questo senso mi prendo tutti i meriti nell’aver contribuito a diffondere l’idea di profumo come oggetto di arte, non nell’aspetto esteriore del packaging.
Cosa intendi quando affermi che il profumo è un oggetto di arte?
Nell’arte concettuale tutto quello che agisce per mimesi e catarsi, abbiamo imparato dalla poetica aristotelica, essere qualcosa che conduce all’arte. Altra cosa è la provocazione, che etimologicamente significa ‘chiamare avanti’ . Quando tu provochi, ti stai ponendo, da artista, un po’ più avanti; magari il presupposto è errato, ma l’arte non è giusta o sbagliata: nel momento in cui ti ‘metti avanti’ è messo anche in conto il non essere compreso. Nel momento in cui decidi di provocare, devi avere però dei contenuti: quel lasso di tempo che intercorre tra quello che tu che esprimi o fai e la comprensione di questo da parte delle persone (mimesi e catarsi) è quello che chiamo un percorso artistico. In questo percorso si genera il legame tra l’artista ed il fruitore, legame che sussiste anche se quest’ultimo dovesse detestare l’artista ed il suo prodotto. È una sorta di processo digestivo. Anche con un profumo tu puoi ottenere questo tipo di reazioni. Se il mio profumo avesse semplicemente una vocazione ‘patetica’, in qualche modo accetterei una generazione commerciale del profumo stesso tale da indurre con immediatezza nelle persone la comprensione di quel liquido che emana un odore. Con oltre 2000 ingredienti utilizzabili, puoi provocare attraverso l’olfatto emozioni che non sono previste o prevedibili.
Quando hai scoperto di possedere le tue doti olfattive?
Sono sinestetico. I sensi lavorano contemporaneamente. L’olfatto per me ha valenze anche negli altri sensi. Ogni odore per me esprime anche un suono o un colore, per questo motivo è più facile per me creare una memoria olfattiva. Posso lavorare con circa 2300 ingredienti con estrema semplicità. Ti faccio un esempio. Immagina di cucinare due uova al tegamino. Poi man mano aggiungi delle spezie, decidi poi di aggiungere anche dello zafferano e una spruzzata di gin. Restano sempre due uova al tegamino, ma vi hai aggiunto altri ingredienti per restituire un’identità di gusto completamente diversa ed unica. Da ragazzo mi sono reso conto di questa caratteristica e l’ho sfruttata. Ho iniziato a lavorare nel mondo del vino come naso; sono poi diventato chef di cucina, poi sono approdato nel mondo dei profumi. Tutto è avvenuto però in maniera atipica; sono sempre stato in contatto con il mondo dell’arte ed influenzato dagli studi di antropologia. Tante esperienze cognitive importanti che confluiscono nel momento della creazione di un profumo: creare un profumo non è definibile come un’abilità artigianale, ma come sincretismo di varie discipline.
Come nasce il connubio con Marco Ventura?
Nel tempo, con Marco Ventura abbiamo condiviso un mood estetico che oggi arricchisce l’universo delle fragranze. Dopo alcune performance fatte in giro per l’Europa, sempre legate al senso dell’olfatto, creando scenografie, abbiamo compreso quanto quell’intorno ad un profumo in realtà lo avesse coinvolto nel risultato artistico finale. Produciamo quindi con uno stile unico, da una parte la profumeria, dall’altra l’arredo d’arte. La nostra è un’azienda, la Pleasure Factory, che comprende un team: chi si occupa di advertising, chi di grafica, chi di marketing. Esitono due aggettivi in profumeria che servono per descrivere i profumi di qualsiasi marchio: Guarleinade e Odriuesque. I nostri brand sono O’driu e Bepolar, quest’ultimo ispirato e dedicato alla bipolarismo. Lo spazio in cui ci troviamo si chiama appunto Odriuesque e rappresenta la sintesi di tutto il nostro percorso concettuale ed artistico.
Quando hai commercializzato il tuo primo profumo e a quale tipologia di clienti ti rivolgi?
Come naso esisto ufficialmente dal 2011. Da allora ad oggi per i miei due marchi ho realizzato 50 profumi. Ho realizzato profumi anche per altri brand, che non posso citare, oltre ad averne realizzato per brand legati alla moda, che spesso non firmo. Ho varie tipologie di clienti. Ho prodotti continuativi che sviluppo in 200 pezzi alla volta e creo prodotti con tirature limitate: già questa è una peculiarità nel mondo della profumeria. Le edizioni limitate hanno sedotto un segmento di collezionisti. Con il passare del tempo, pur avendo inizialmente un prezzo accessibile, alcuni profumi vengono oggi cercati e venduti dai collezionisti a prezzi pazzeschi. Alcuni profumi hanno un prezzo di circa 8000 euro al pezzo. Profumi che non vengono nemmeno utilizzati. Questo un po’ mi dispiace, ma il fenomeno del collezionismo mi rende orgoglioso perché aiuta a veicolare proprio l’idea di profumo come opera d’arte. Linee commerciali o continuative invece sono destinate a diversi target. Nel tempo ho preso l’abitudine a non limitare la mia clientela. È vero quando penso e creo un profumo definisco un target di riferimento, ma poi con l’esperienza ho verificato che un determinato profumo può essere acquistato da una categoria di persone completamente diversa da quella immaginata. La profumeria inoltre è unisex per me, come la cultura. Non esistono libri o dipinti per soli uomini o per sole donne. La distinzione che si pone tra profumi da donna o da uomo è un’invenzione commerciale ed è condizionata da una subcultura, essa varia per aria geografica. È difficile pensare ad una cultura uniforme delle percezioni olfattive. L’olfatto è un senso dinamico che apprende in maniera incosciente. In ogni luogo il tuo olfatto può amare fragranze e riconoscerle come familiari.
Come vieni accolto all’estero?
Direi che i miei profumi e le mie linee non sono assolutamente spendibili in Giappone ed in Cina. Molti dei miei profumi risultano invece più vicini al Medio Oriente, se non altro alcune fragranze molto prorompenti. Il primo brand che ho creato, O’driu, decisi non avesse valenze né francesi né italiane, nonostante l’Italia sia terra madre della profumeria. O’driu è l’anagramma della parola Druido: volevo esprimere un europeismo concettuale e storicamente antico che mi permettesse di non precludermi alcuna materia prima. Sebbene in Russia ed in Ucraina siano molto affascinati dalla ridondanza delle confezioni, i miei profumi piacciono. I russi hanno anche una grande curiosità analitica. Piaccio anch’io come personaggio, forse per quella inclinazione all’anti-marketing. È una cosa che apprezzano. Quando vado Russia mi sento un po’ come Toto Cutugno (ndr: ridiamo). Invece, non ho mai conquistato totalmente gli Usa. Il mio personaggio è percepito come qualcosa di non conforme, al di là dei collezionisti, non ho mai avuto un mercato coerente e costante. Per uno che mi ama alla follia, venti mi detestano per quello che rappresento. Ho fatto anche due profumi in tiratura limitata che si chiamano Hillary&Donald, acquistati come pezzi da collezione. Il mercato di nicchia principale è l’Italia e ovviamente l’Europa.
Cosa puoi dirmi degli ingredienti che usi?
Gli ingredienti naturali, essenze, sono una tavola molto ridotta. Si contano meno di un centinaio di essenze. La possibilità che ti dà la sintesi è molto più ampia. Utilizzo prevalentemente materia prima naturale, ma non disdegno i prodotti sintetici che acquisto presso le industrie essenziere. Queste spesso funzionano anche da collettori di prodotti provenienti da varie parti del mondo e come centri di produzione di nuove molecole. Potrei raccontarti delle favole tipo: vado in giro per il mondo a cercare ingredienti, ma non è così. Scelgo ingredienti che abbiano un valore di mercato molto alto, ma è una cerca non romanzata, né poetica.
Quanto è eco-sostenibile l’industria dei profumi?
La profumeria non è etica e non è ecologica. Nemmeno l’utilizzo esclusivo di ingredienti naturali garantisce un valore eco-sostenibile, a meno che non ci si riferisca agli infestanti naturali come la lavanda. Esiste per esempio un ingrediente estratto dalla ghiandola pineale del castoro. È chiaro che l’ingrediente non lo estrai se non uccidi il castoro. Nella sintesi, parliamo invece di aldeidi. La profumeria non è sostenibile e non esistono disciplinari che prevedano una regolamentazione dell’industria in tal senso. L’unico disciplinare fu adottato come patto di non belligeranza tra le grandi industrie. Devi considerare un’altra cosa. L’impatto dell’industria essenziera sull’ambiente e nella società non è limitato alla profumeria che nel mercato occupa una fetta del 20%. Le industrie essenziere lavorano principalmente nel food: tutto quanto mangiamo, processato industrialmente, è arricchito da aromi o sensazioni olfattive, a creare l’identità del prodotto. Bevande e cibo: tutto è addizionato di aromi.
Tu invece, come naso, evolveresti la tua professione in senso sostenibile?
L’unico modo per poter avere un approccio etico o sostenibile in questo ambito è smettere di produrre profumi e certo non utilizzarne. Tengo però a sottolineare che il mio lavoro occupa una nicchia di nicchia di mercato, non sono un’industria. L’industria di massa genera prodotti che spesso esprimono un valore povero di contenuti. Questi fanno parte di quella catena non sostenibile di cui parli e che attraverso il marketing genera richiesta. Non potrò mai considerarmi un pericolo per il pianeta se mi confronto con il mass marketing. Il vero problema è nell’utilizzo di massa dei prodotti che utilizzano essenze. Prima citavo l’industria del food, ma pensa a tutte le detergenze che utilizziamo in casa. Non c’è prodotto che tu stessa utilizzi senza aldeidi, aromi chimici. Se ne potrebbe fare a meno in nome della sostenibilità. Le profumazioni di ambiente, shampoo, bagno schiuma, creme per la cura del corpo, in tutti questi prodotti c’è qualcosa che ancora prima di parlare all’ambiente, alla pelle, alla stessa funzionalità, parla al naso. Risponde ad un’esigenza che l’uomo ha sviluppato come semantica del buono e del cattivo.
Ti viene commissionato un profumo da chiamare L’anarchica? Come lo immagini?
Prima di tutto eliminerei l’apostrofo, quindi solo Lanarchica. Dal punto di vista olfattivo analizzerei cosa si vuole raccontare. Se volessi raccontare una sorta di anarchia nel mondo del profumo potrei utilizzare ingredienti non utilizzati dal mass market, se invece volessi raccontare un’anarchia con scie non prevedibili, potrei utilizzare ingredienti che il fruitore non si aspetti io metta insieme. Non è un profumo facile. Non so bene perché anarchia evochi quasi sempre accezioni negative. Per me l’anarchia ha qualcosa a che vedere con il giusnaturalismo: sono convinto che l’animale umano abbia delle regole non scritte insite nella propria natura. Lanarchica quindi non sarebbe un profumo alieno, ma del tutto umano, ricco di umori umani. Eviterei gli stereotipi anarchia = libertà e anarchia = pericolo sociale. L’anarchia sarebbe un punto da cui partire non un punto cui arrivare.
Puoi spiegare meglio quest’ultimo passaggio?
Ti racconto un aneddoto. Tempo fa ero a Bologna, alla stazione. Riconosco tra la folla un mio professore di Diritto Costituzionale, che fu anche docente di Filosofia del Diritto e di Teoria Generale del Diritto, un pensatore libertario. Parlo di anarchia filosofica. Lui non mi riconobbe. Insieme a molte altre persone, aspettavamo la partenza di un treno che aveva accumulato molto ritardo in attesa di un secondo treno che vi si doveva agganciare. Le indicazioni che gli altoparlanti ci davano erano completamente sbagliate. Ognuno cercava di raggiungere i posti assegnatigli sui biglietti. Un caos. Ad un certo punto si decise di salire comunque sul treno doppio per evitare che si accumulasse altro ritardo. L’idea di tutti era che una volta saliti poi ci si sarebbe spostati verso i rispettivi posti assegnati. Io salii sullo stesso vagone dove c’era il mio ex professore. Ovviamente rimanemmo bloccati nei corridoi. Fu allora che urlai: ‘Facciamo che ognuno si sieda dov’è’. Qualcuno mi gridò di rimando: ‘Cos’è questa anarchia?’. Gli risposi che quando l’anarchia è l’unico modo per razionalizzare la situazione, sia la benvenuta. Il mio anziano professore disse : ‘Ha ragione!’ e fu il primo a sedersi. Ecco vedi, in quel treno tutti avevano un numero, un vagone e una lettera assegnati. Tutti volevano raggiungere quel ‘posto’, ma proprio quella volontà indotta stava continuando a rallentare la partenza del treno. Tutto questo per dire che Lanarchica la immagino possedere scie molto naturali, tali da lasciare respirare il cervello per mantenere un pensiero libero, aperto ad un’evoluzione, un cambiamento per evolversi in dieci o dodici ore. Un odore itinerante. Una volta stabilito il concetto di un profumo, una sorta di meta profumo, devi anche pensare a come questo interagisca con gli altri, su di una pelle. Alle persone tu non dici sto indossando l’anarchia, ma lo racconti a livello olfattivo. Questo significa andare a scegliere degli ingredienti che possano essere ancorati a delle percezioni filosofiche. Sì, potrebbe sembrarti una supercazzola. Se ti dicessi assensio, immediatamente legheresti la parola ad una dimensione poetica o ad una connotazione poetica. Se invece dicessi wormwood, la tua mente penserebbe ad un legno marcescente che evoca finitezza, un’esistenza transeunte. In realtà sono lo stesso ingrediente, appartengono alla stessa famiglia olfattiva. Così come il linguaggio influenza il percepito, così l’uso di un odore o di un’essenza nel tempo all’interno di un gruppo, di una popolazione, in un’area geografica ne influenza il percepito attuale. Questo va studiato, gli ingredienti riconoscibili sono portatori di un concetto.
Tra qualche giorno nelle sale italiane uscirà il docu-film Diabolik sono io. Scritto da Mario Gomboli e Giancarlo Soldi, è narrazione inedita del mitico ladro creato dalle sorelle Giussani. Tu invece sei colui che ha creato il profumo Eva Kant e sei comparso come personaggio nell’albo che ne celebrava i 50 anni. Mi racconti del profumo e di questa esperienza?
Una bella genesi. Parliamo di un personaggio irreale, ma realistico. Lei e Diabolik sono la prima coppia di fatto in Italia. Le sorelle Giussani hanno creato una donna assolutamente atipica. Eva perde il cognome perché la matrigna la manda via di casa. Trascorre un po’ di tempo in un orfanatrofio dal quale scappa. Finisce a lavorare in un night come ballerina. Conosce il fratello del padre che non sa essere sua nipote. Lui se ne innamora. Lei lo fa sbranare da una pantera e si riappropria del suo cognome e dell’eredità dei Kant. Era infatti una nobile. Bellissimo anche il concepimento del nome di questo personaggio: la prima donna ed il filosofo tedesco. Le sorelle Giussani non volevano che quella donna potesse essere compresa in un giudizio sintetico a posteriori: Eva Kant non puoi esperirla, lei è un noumeno. Come mi sono rapportato al personaggio? Hai di fronte un fumetto, non c’è voce e non c’è odore. C’è da dire che lei rispetto a Diabolik ha un volto noto alla polizia, quindi per avere una vita sociale deve assumere le identità di altre donne, usare delle maschere. L’idea che dovevo tradurre era quella di una donna che si calasse nelle sembianze di un’altra donna o di altre donne. Quindi l’inizio del profumo Eva Kant è una scia di profumi facili, lavorano molto sui fioriti, fiori bianchi, magnolia, lavanda. Ad un certo punto però inciampi in una scia di cardamono e benzoino, che è atipica ed è da lì che cominciano a venire fuori i segreti di Eva Kant, con tonalità che possono essere di sandalo, mirra, zenzero. Insomma un’attrazione continua alternata a sfumature di allarme. Sulle donne promette enigmi e fascino, oltre che una certa distanza. Eva Kant è contemplabile, molto bella, ma fuori dagli stereotipi dell’essere bionda e piacente, è anche una pericolosa criminale, da tenere a distanza. Il mio ruolo nel fumetto? Nel 2013, Eva Kant compiva 50 anni. Diabolik decide di contattarmi per regalarle un profumo creato apposta per lei. Diabolik le racconta di me come di un ricco signore da spennare e lei si finge guida turistica. Mi condurrà in giro per Milano. Una particolarità di quell’albo è anche il riferimento ad una città reale, Milano appunto. Durante questo giro turistico, cerco di avvicinarla per sentirne l’odore: Eva ne è infastidita e pensa di anestetizzarmi con degli aghi. Poi pranziamo insieme e la vicenda finisce lì. Diabolik viene a ritirare il profumo presso i miei uffici e glielo regala. Nel fumetto mi chiamo Angelo Orazio Pregon, senza la ‘i’.