Il film “Zen, sul ghiaccio sottile”, lungometraggio di esordio della regista Margherita Ferri, è stato presentato venerdì 15 febbraio, in occasione del terzo appuntamento del Sudestival, il “festival lungo un inverno” dedicato al cinema italiano d’autore.
E’ la storia di Maia, detta Zen, una sedicenne irrequieta e solitaria che utilizza la sua rabbia per proteggersi dai suoi compagni e dalla vita. A raccontarci del complesso personaggio di Maia e di tanto altro è la stessa regista.
TheSpot.news ha intervistato la regista:
La prima domanda che vorrei porti è: davvero è più complicato per una donna lavorare nel mondo della “settima arte”.
Secondo me si. Nella mia esperienza lavorativa mi sono accorta che le ragazze che lavorano, sia nei reparti tecnici quindi fotografia, suono- che in quelli artistici importanti -come regia- vengono chiamate meno e quindi ci sono meno opportunità per poter realizzare un proprio film o anche per lavorare come registe su commissione quindi per spot, ad esempio. Credo che ci sia un po’ di discriminazione, cioè non ci sono dei veri e propri pregiudizi ma normalmente scelgono un uomo. Io faccio un po’ di ironia su questa cosa: quando faccio delle gare per aggiudicarmi dei lavori, alla fine c’è sempre un ‘fantomatico regista di Milano’ che arriva prima di me (sorride n.d.r.!). In Italia si fa un po’ di fatica, ancora.
Come è stato per te approcciarti al tuo primo lungometraggio, difficoltà sia a livello narrativo sia come tematica scelta.
Esordire in Italia è sempre un percorso lungo e complesso. Anche per Zen, quindi, è stato un processo lungo: la prima stesura risale al 2013 quindi sono passati diversi anni e parecchie avventure e disavventure per realizzarlo. Poi, nel mio caso, le cose sono state un po’ più complicato perché volevo esordire con questo film che tratta di tematiche che in Italia sono poco sdoganate cioè l’identità di genere, l’orientamento sessuale nei personaggi adolescenti. Io, però, ci tenevo molto ad esordire con Zen sul ghiaccio sottile, è una storia mia che volevo raccontare e, quindi, ho fatto di tutto per riuscire a portarlo a termine. Quello che ha cambiato le carte in tavola è stato l’incontro con la produzione di Bologna che si chiama Articolture e con Chiara Galloni che ha avuto fiducia in questo progetto.
Pensi che la tematiche LGBTQI+ siano, finalmente, più trattate in ambito cinematografico?
Beh certamente negli ultimi anni c’è stato uno sviluppo della cinematografia Queer in tutto il mondo. In Italia, come dicevo, le cose sono più lente ma è anche vero che produzioni estere (come anche quelle di Netflix) sono entrate nell’immaginario comune. Sono produzioni molto attente alla parità di genere, alla rappresentazione delle donne, alle minoranze sia di genere che di orientamento sessuale ed etiche, stanno cambiando la percezione di quello che anche i produttori vogliono finanziare.
Quindi si sta aprendo una strada, ci sono molte registe -come me- che stanno lavorando a riguardo oltre, chiaramente, ad autori mainstream con produzioni un po’ più canoniche che sono state utili ma che ora come rappresentazioni delle soggettività LGBT sono superate. Il mio lavoro si inserisce, dunque, in questa nuova tipologia di lavori ed è anche bello essere tra i primi in Italia.
Torniamo a Zen sul ghiaccio sottile: come hai scelto le protagoniste? Avete anche svolto dei laboratori di educazione alle differenze e scelto dei partecipanti per il film?
La mia scelta era quella di non prendere attrici professioniste o ragazze appartenenti a scuole di teatro, perché temevo che potessero snaturare quella naturalezza estrema che invece volevo conferire alla protagonista, attorno alla quale ruota tutto il film.
Abbiamo tenuto una serie di laboratori alla sensibilizzazione all’identità di genere e all’orientamento sessuale in alcune scuole di montagna intorno a Bologna ed era propedeutici per chi avrebbe voluto partecipare alla seconda fase di casting. Poi abbiamo fatto un altro casting più tradizionale a Bologna e quindi per il cast finale abbiamo unito varie personalità che ci hanno colpito durante tutti questi incontri.
Ho scelto dei ragazzi che non avevano mai recitato perché ci tenevo ad avere un certo realismo, una forte aderenza al tipo di ragazzi che puoi trovare in quelle zone, per questo ho voluto fare i casting in quei luoghi. Con la protagonista, Eleonora Conti, abbiamo lavorato molto bene. Ha scoperto di avere un talento e l’ha mostrato nel film.
Solitudine di Maia emerge da tutto: dalle location e dall’ambiente a volte anche ostile, dal suo desiderio di rifugiarsi in montagna.
Si, perché non volevo rappresentare la classica storia di bullismo che porta ad isolarsi dal mondo. Volevo, invece, rappresentare un personaggio complesso che ha questa rabbia perché si sente diverso e gli altri trattano male Maia proprio per la sua diversità. Lei non riesce, in primo luogo, a far pace con le altre persone ma anzi le rifiuta, il suo modo di reagire è in realtà attivo ma anche forse sbagliato. Volevo creare dei personaggi che non fossero buoni o cattivi, vittime o carnefici, ma più complessi e che avessero delle motivazioni al loro comportamento.
L’utilizzo della ‘corazza’ che è in realtà la tuta da hockey cosa rappresenta? Una sorta di eroina che si spoglia del suo costume? Maia, infatti, all’inizio del film è nello spogliatoio e si toglie la divisa. Sembra quasi voler simboleggiare un’apertura verso il mondo e poi, per, alla fine del film la indossa nuovamente…
La metafora è proprio questa. La divisa da hockey sembra una corazza che la protegge dal mondo. Quindi ho voluto realizzare due scene parallele -una all’inizio e l’altra a chiusura del film- per raccontare quello che Maia vivrà. Con la svestizione, infatti, si annuncia il fatto che lei per la prima volta si fiderà e si aprirà a qualcuno (cioè Vanessa) e invece la vestizione finale è una sorta di rituale per prepararsi alla lotta. Una lotta per la propria identità e per il proprio posto nel mondo.
Quindi un racconto di formazione in cui Maia più che prendere coscienza della propria identità sessuale, l’affermazione ciò che è: dirà, infatti, ‘Non sono lesbica, sono un uomo’. La corazza dunque le servirà nuovamente per affrontare un nuovo viaggio?
Esatto. Si tratta di una nuova sfida. Se prima la sua rabbia verso i suoi compagni non aveva uno scopo preciso, era un rabbia disorientata, alla fine si riveste e indossa nuovamente la corazza perché ora è consapevole e si prepara ad affrontare una nuova sfida, quella con la vita e con la propria identità.
Pensi che il nuovo governo stia bloccando un po’ i passi che si sono fatti sin ora nei confronti delle minoranza, in generale?
Beh si. In molti articoli si leggono manifestazioni di odio verso le minoranze che prima non erano tollerabili. Diciamo che alcune istituzioni stanno avvallando, implicitamente, alcuni atteggiamenti anche se, chiaramente, a livello legislativo non è accettabile. Dopo anni di battaglia sono stati conquistati dei diritti civili che non credo siano in pericolo ma il problema è il clima sociale che ci circonda.
Per conclude ti chiederei: stai lavorando ad un nuovo progetto?
Si, già durante la lavorazione di Zen mi sono approcciata ad un altro progetto che è sempre ambientato nel mondo sportivo -questa volta si tratta di calcio- e che tratta di tematiche di genere e di orientamento sessuale. E poi sto iniziando a scrivere un altro progetto con elementi soprannaturali sempre con adolescenti come protagonisti.