Arrivederci Saigon” di Wilma Labate narra la storia di una band di cinque ragazze che nel 1968, dalla profonda provincia toscana, vengono spedite in Vietnam a suonare per i militari della base americana.
A raccontarci del suo ultimo lavoro e di tanto altro è la stessa regista, intervistata in esclusiva per Thespot.news.
Da donna a donna, la prima domanda che viene da porti è se sia davvero più difficile per una donna lavorare nel mondo della “settima arte”.
E’ molto più difficile, difficilissimo. Oltre al fatto che le donne guadagnino molto meno, in più hanno immense difficoltà rispetto agli uomini. Sembra una banalità doverlo ripetere ma è un qualcosa di esistente e lo viviamo sulla nostra pelle entrambe (riferito all’intervistatrice n.d.r.) perché accade, comunque, in ogni ambito. Anche se nell’ambiente del cinema il problema è più acuito, è già complicato per tutti ma per le donne lo è maggiormente.
Come hai iniziato? E perché, dunque, hai deciso di perseguire questo lavoro?
Questo ormai è il mestiere che so fare, la passione che sento nei confronti del cinema è troppo forte quindi è, come dire, insostenibile pensare di vivere senza. Io ho bisogno di lavorare, oltre perché devo ‘campare’, non posso fare a meno di questo mestiere.
Il tuo essere donna come influenza i tuoi film?
Beh, nei miei lavori c’è sempre stata e c’è sempre una donna.
Anche il mio ultimo lavoro ‘Arrivederci Saigon’ è un progetto al femminile e corale, perché ho raccontato di cinque donne e questo non capita spesso. Le storie che raccontano le donne e che le hanno come protagoniste, infatti, non sono tante. Raccontare, dunque, al cinema la storia di 5 donne che io, pur essendo mie coetanee, chiamo ragazze perché hanno conservato uno spirito e un’anima molto giovane, è stato davvero incredibile e non potevo farmi sfuggire un’occasione del genere.
Parlano di ‘Arrivederci Saigon’, hai scelto, dunque, questa storia non solo per l’originalità ma soprattutto perché hai delle donne come protagoniste?
Assolutamente, era troppo attraente questa storia, terribilmente difficile ma incredibilmente appassionante.
Quanto è complicato realizzare un documentario? E perché difficilmente approdano nelle sale?
E’ complicatissimo fare dei documentari come lo è, anche, realizzare film. E’ vero però, essendo dei documentari dei piccoli film, che i produttori in grado di sostenerli e comunque solventi non sono interessati a finanziarli perché si guadagna molto poco. I documentari si fanno per passione.
Sembra, però, che le cose stiano cambiando. Sembra esserci un nuovo approccio, una nuova ondata.
Si, è così. In realtà c’è una nuova ondata, ci sono documentari bellissimi che prima non si vedevano, c’è un nuovo linguaggio molto più moderno e certamente molto più cinematografico. Oggi i documentari sono film, prima avevano un altro stile mentre ora il cinema del reale -chiamiamolo così- ha lo stile della fiction. Le difficoltà nel rintracciare i finanziamenti, però, restano ugualmente (sorride n.d.r) e, infatti, per realizzare Saigon sono intervenuta personalmente nella produzione.
Il Vietnam: un tema vasto, tanto materiale di repertorio, tanto cinema sulle vicende della guerra, e anche foto, video amatoriali… quindi è stato complicato rintracciare il materiale? E sceglierlo?
E’ stato complicatissimo, perché quello non è materiale che abbiamo preso da film -neanche il lungo piano sequenza, ripreso dall’elicottero, mentre è in atto sulla pianura sottostante un bombardamento- ma si tratta di materiale documentario che abbiamo trovato negli archivi americani.
Abbiamo lavorato dei mesi per cercare il materiale e selezionarlo; è stato davvero faticoso ma anche molto appassionante perché abbiamo scoperto delle realtà e delle immagini belle ed efficaci e, soprattutto, abbiamo capito meglio perché Hollywood abbia prodotto quei capolavori sul Vietnam.
Negli ultimi anni del ’70 ai primi anni ’80 è stato ‘partorito’ un vero e proprio filone cinematografico sul Vietnam (come Apocalypse now, Il Cacciatore, per citarne alcuni) ma in Italia non ci rendiamo conto di quanto questi capolavori siano ispirati al materiale di archivio esistente. Prodotti documentaristici incredibili, girati anche dagli stessi soldati, che non si conoscevano – o almeno io non lo sapevo prima di girare Saigon- e che rivelano quanto la guerra del Vietnam sia stata raccontata per immagini. E’ stata la peggiore guerra del ‘900 -dopo la seconda guerra mondiale- la più sanguinosa, la più distruttiva e la più lunga (è durata più di 10 anni), l’unica in cui gli Americani hanno dovuto ammettere, pubblicamente, una sconfitta contro un esercito abbastanza esiguo di contadini –tosti però come la roccia- ed è stata anche la guerra più raccontata.
Documentaristi, giornalisti, ci sono andati tutti: da Joris Ivens al più piccolo giornalista tutti hanno scelto di raccontare, con visioni diverse, quella guerra.
Mi viene quindi in mente la situazione odierna in Palestina. Perché è così complicato raccontarla?
Io ho realizzato un documentario in Palestina, nel 2003, dal titolo ‘Lettere dalla Palestina’ (si tratta di un documentario collettivo che è stato presentato a Berlino n.d.r.) e, paradossalmente, più di 15 anni fa era più semplice raccontare quelle zone. Oggi è sicuramente più difficile e anche più rischioso, la situazione odierna è complicata, violenta ed esplosiva quindi tentare di raccontare risulta molto difficile. Inoltre queste situazioni vengo abbastanza taciute dai media internazionali.
Hai realizzato diversi documentari collettivi, quali le differenze e le difficoltà rispetto ad un lavoro individuale?
Quando sei insieme ad altri registi, altri colleghi, devi tener conto del loro stile e del linguaggio diverso devi, quindi, cercare di andare incontro al lavoro dell’altro, optando per una collaborazione. Se, invece, sei solo puoi esprimerti liberamente. Ciò non vuol dire che il documentario collettivo non mi piaccia ma anzi mi sono divertita a lavorare con registi ‘vecchi’ – come mi piace chiamarli- e molto più importanti di me come Monicelli, Scola, Maselli, era divertente e conflittuale allo stesso tempo. Uno scontro di visioni, di pensiero sul cinema generazionale ma molto fruttuoso e creativo.
Cosa che forse non accade più oggi?
Beh, è certamente più difficile. Siamo molto separati oggi, isolati. Quelli che io, appunto, chiamo i ‘vecchi’ –con tutto il rispetto, s’intende- avevano una solidarietà e complicità fra di loro che noi non abbiamo. Spero che i giovani d’oggi abbiano nuovamente questa propensione.
Tornando al tuo ultimo lavoro ‘Arrivederci Saigon’: come è stato rapportarsi alle protagoniste? Quali difficoltà, se ne hai avute, hai trovato nell’approcciarsi a chi ha vissuto questa storia? Loro che si sono, involontariamente trovate dalla parte del ‘nemico’ contro cui si protestava.
Loro dopo l’esperienza, dopo il rientro in Italia e dopo una condanna che non meritavano, direi, erano in realtà molto diffidenti, erano abbottonate, ci ho messo molto tempo prima che potessero raccontarsi. Poi, però, si sono rese conto che ero dalla loro parte e si sono aperte, hanno vuotato il sacco -come dicevo mentre giravo- e non le ho mai giudicate. Le ho sempre tranquillizzate su questo, non bisogna mai esprimere giudizi.
Come repertorio musicale, inerente alla loro attività, non c’è nulla?
No, ci sono solo le poche polaroid che ho montato nel documentario. La verità è che loro andavano a suonare in basi piccole e pericolose ubicate verso il confine di demarcazione con il nord dove, ovviamente, non c’era un’attrezzatura idonea per filmare; erano luoghi pericolosi dove c’era tantissima paura e tanta intenzione di portare a casa la pelle sia da parte loro che da parte degli stessi soldati. Quindi, evidentemente, nessuno ha pensato, pur vivendo un momento di distrazione con le loro esibizioni, di riprendere i loro concerti; anche se, in realtà, negli anni potrebbero emergere dei reperti video che le ritraggano e potremmo scoprire altre verità.
Per concludere ti chiederei se sei già al lavoro con un altro progetto.
Ho diverse idee, non so ancora esattamente ma vorrei che il prossimo fosse un film!