A dare il via al festival, venerdì 25 gennaio, è stata la mostra fotografica “Pupi Avati. Parenti, amici e altri estranei”, realizzata in collaborazione con la Cineteca di Bologna e dedicata ai cinquant’anni di cinema del regista. Si è proseguito, poi, con la vera è propria inaugurazione della manifestazione presso il Teatro Auditorium Radar di Monopoli che ha accolto il Maestro Avati, che, dopo una conversazione con Michele Suma – direttore del festival – ed il pubblico, ha dato il via al Sudestival 2019 con l’introduzione e la proiezione del suo film “La seconda notte di nozze” (2005).
Il festival è entrato nel vivo e proseguito, sabato 26 gennaio, con una giornata interamente dedicata agli eventi speciali. A concludere l’intensa giornata, la Serata Evento dedicata alla proiezione di “Ride”, esordio alla regia dell’attore Valerio Mastandrea che, insieme alla protagonista Chiara Martegiani, era presente in sala per incontrare il pubblico.
Per l’occasione abbiamo chiacchierato con Mastandrea cercando di scoprire qualcosa in più su di lui e sul suo nuovo ruolo da regista.
“Fare un film da regista è partito dall’idea di questa storia, è stato grazie ad essa che ho pensato che potessi realizzare la mia opera prima. E’ un racconto che porta con sé vicende di una famiglia, di persone inserite in un contesto sociale che può, a volte, determinare le proprie emozioni”.
Il film affonda le radici in tematiche profonde. La narrazione di una morte bianca – il film, infatti, si svolge durante le ore che precedono il funerale del marito di Carolina, morto in fabbrica in un incidente sul lavoro- sottende, in realtà, molto altro. Il desiderio di libertà di vivere i propri sentimenti senza condizionamenti?
“Esattamente, il tema è proprio questo: quanto si possa essere liberi di vivere le proprie emozioni.
Noi dovremmo essere liberi; ognuno dovrebbe poter esprimere le proprie sensazioni senza condizionamenti. In realtà è molto complicato anche esprimere sentimenti di felicità. I canoni odierni di felicità, sono stabiliti da altri, dai social, dall’esterno. Insomma, se non sei felice, a volte ti senti quasi in colpa di non esserlo, come se si dovesse seguire un modello imposto, ad esempio, dalle foto sui social. Quindi non solo è difficile essere felici ma anche, soprattutto, soffrire quando si deve soffrire. Anche perché, spesso, il contesto in cui accade una tragedia del genere (come quella che vive Carolina) ti porta via l’autenticità perché tutti ti sovrastano, ti stanno addosso e ti ritrovi obbligato a dover esprimere un sentimento che tutti si aspettano. Sei costretto a piangere anche quando, forse, non riesci a farlo”.
Hai dichiarato che per te fare l’attore è una missione, un bisogno, …cosa intendi?
“E’ assolutamente un bisogno. E’ qualcosa che mi è servito e continua a servirmi come persona. Non si tratta solamente di un lavoro ma è molto di più”.
Quindi anche fare il regista è diventato un bisogno?
“Evidentemente non mi bastava più fare l’attore e mi serviva fare anche il regista. Credo, davvero, che questo mestiere mi serva. Questo è uno dei privilegi di approcciarsi e trovare un lavoro che possa aiutarti, non solo a vivere, ma anche a capire se stessi, a capire gli altri. Questa è una delle più grandi fortune”.
Invece Valerio spettatore cosa sente di consigliare?
“Più che consigliare qualcosa preferisco raccontare che tipo di spettatore sono. Io amo i film che mi lasciano libero di pensare, dei film che non stabiliscono delle emozioni su carta. ‘Ride’ è uno di quelli che avrei voluto vedere, mi piace approcciarmi ad un lavoro che affronta un racconto con un linguaggio non per forza didascalico. Anche la scelta registica, il voler raccontare i personaggi da dettagli e particolari rispecchia, dunque, questa propensione. Molti film di registi raccontano molto dei registi, di mio in questo film c’è tanto, il tono, le contraddizioni umane e professionali. E quindi torno a confermare che questo mestiere ti permette di entrare in grande contatto con te stesso, di guardarti dentro”.
Il discorso, poi, prosegue sull’attualità. Parlando della sua interpretazione, fatta in TV qualche tempo fa, delle parole di Giorgia Meloni sul Global Compact, sorride semplicemente. Il discorso, invece, si sposta sulla sua ultima apparizione televisiva, risalente proprio a pochi giorni fa.
Hai letto i versi di ‘Torture’ per ricordare Giulio Regeni. A tre anni dalla scomparsa del ricercatore italiano hai recitato la poesia scritta da Wislawa Szymborska?
“Aver letto quella poesia, scelta tra l’altro dalla famiglia di Giulio con grande dolore perché ogni parola è una coltellata, è stato davvero emozionante. Scegliere proprio ‘Torture’ da rappresentare in diretta in un programma televisivo, ha significato che non stiamo aspettando la verità per Giulio a braccia conserte. E’ anche un modo per esprimere la tanta rabbia che c’è oltre all’affetto per la famiglia, alla vicinanza e alla solidarietà di tutti. E’ importante non aver paura di dire le cose sono successe a Giulio, cose che si ritrovano nelle parole della poesia e cose anche peggiori, forse. E’ stato un momento molto difficile, quello di dover leggere parole così dure, ma necessario”.