Qualche giorno fa, scorrendo feed e navigando l’oceano virtuale, è saltata fuori, timida, la notizia del decesso di Julián Carrillo Martínez, indigeno rarámuri, leader della comunità Tarahumara di Coloradas de la Virgen e difensore delle foreste della comunità indigena. Il 20 febbraio del 2014, Carrillo Martínez fu inserito dal Ministero degli Interni messicano nel programma di protezione di attivisti e giornalisti che lottano per la difesa dei diritti umani in Messico. Il corpo di Carrillo Martínez, crivellato di colpi, è stato ritrovato il 24 ottobre scorso in un luogo imprecisato nei pressi delle foreste della Sierra Madre settentrionale. A diffonderne la notizia sono stati il gruppo Alianza Sierra Madre A.C. e Amnesty International.
Martínez ha dedicato la sua esistenza alla lotta per i diritti degli indigeni e alla protezione delle foreste della Sierra Madre settentrionale, luoghi ancestrali per la sua gente, minacciati dal disboscamento forzato ed incontrollato. Carrillo Martínez ed i compagni attivisti chiedevano da tempo l’annullamento dei permessi di sfruttamento forestale in territorio indigeno concessi dal Ministero dell’Ambiente e delle Risorse Naturali (Semarnat) ai coloni meticci. Una battaglia che pochi giorni prima del ritrovamento del cadavere di Martínez veniva legittimata dal Tribunale Superiore dell’Agricoltura con un pronunciamento a favore degli indigeni rarámuri della comunità Choreáchi, adiacente il territorio di Coloradas de la Virgen. Una vittoria importante che lasciava ben sperare Martínez e la sua gente, peraltro seguiti dallo stesso team di avvocati che aveva sostenuto la causa della comunità Choreáchi.
Un omicidio, quello di Martínez, che ha mandanti e sicari ancora ignoti ma che per tempistica chiarisce ancor di più la portata della posta in gioco, non solo in Messico. La morte del Defender messicano è solo l’ultima di cui si ha notizia, diffusa peraltro solo su alcuni media di casa nostra, il triste senso di questa travalica i confini del paese nordamericano, almeno dovrebbe. Appena 4 giorni dopo la morte di Martínez, gli internauti nostrani si spellavano i polpastrelli nel commentare, a favore o contro a seconda delle comode posizioni e postazioni politiche, l’elezione del nuovo presidente brasiliano, Jair Messias Bolsonaro.
Di Bolsonaro sappiamo che è omofobo, misogino, suprematista bianco, nostalgico della dittatura militare degli anni ’70-’80, ex-militare lui stesso e demone in pectore per le popolazioni indigene dell’Amazzonia, e last, but not least, di origine italiane. Anche Onyx Lorenzoni è un ex-militare. Lorenzoni è il designato da Bolsonaro ad assumere la carica di capo dello staff del futuro governo che guiderà il paese con la bandiera giallo-verde (non ci si scomodi qui ad indicare coincidenze cromatiche) a partire dal gennaio del 2019. Senza troppi giri di parole, Onyx ha già chiarito che l’unificazione dei Ministeri dell’Ambiente e dell’Agricoltura è obiettivo non contestabile per il nuovo governo: la produzione agricola è prioritaria rispetto alla protezione dell’ambiente.
Detto in altri termini le multinazionali e le lobby dell’industria agroalimentare dissennata avranno libero accesso a terre e foreste da sventrare e lo sterminio delle popolazioni indigene sarà più o meno legittimato dal governo. Eppure quelli che dal 28 ottobre piangono l’Amazzonia ed il Brasile, sembra dimentichino che il picco di disboscamento più o meno legale del polmone della terra si è raggiunto nel giugno del 2018, grazie allo smantellamento del programma di controllo ad opera di Michel Temer, ex presidente del Brasile succeduto a Dilma Rousseff nel 2016. Con Bolsonaro i predatori della terra, in Brasile, andranno ‘solo’ a risparmiare mazzette e fondi fino ad ora dirottati per foraggiare avvocati e mercenari assassini.
Di Defender uccisi da ignoti sicari, come è accaduto a Julián Carrillo Martínez, se ne contano anche in Brasile e se contano da prima dell’elezione di Bolsonaro. Bastava seguire il prezioso lavoro svolto dal 1993 da Global Witness in difesa dell’ambiente e dei diritti umani delle popolazioni che proteggono gli ecosistemi dallo sfruttamento delle risorse e dalla corruzione della sistema economico e politico mondiale per comprendere come il destino del pianeta non sia segnato dal colore politico dei reggenti di governi e nazioni, almeno non solo, piuttosto dai paradigmi pseudo filosofici che ancora sostengono l’economia di crescita e sviluppo e la finanza di profitto in salsa ottocentesca.
Da circa un anno, sulle pagine del The Guardian, grazie alle inchieste, agli aggiornamenti e al monitoraggio condotto dalla Global Witness, conosciamo, là dove possibile, i volti ed i nomi, le storie, di coloro che lottano e spesso perdono la vita nel tentativo di difendere diritti ed ambiente naturale. L’anno scorso sono stati assassinati 207 Defender. Dal 2015 ad oggi, in Brasile ne sono stati assassinati 145 , la maggior parte erano attivisti impegnati nella lotta al disboscamento delle foreste. In questa triste classifica, le Filippine seguono con 102 assassinati e l’Honduras resta il paese con il più alto rapporto tra Defender uccisi e popolazione. Nel 2018 sono 67 gli omicidi fino ad ora accertati. Chi sono i responsabili di queste morti dimenticate? L’agrobusiness, l’industria mineraria, il bracconaggio, il disboscamento, ma soprattutto la nostra ignoranza da precari ed impegnati consumatori compulsivi. La maggior parte delle violenze sono compiute contro popolazioni inermi, residenti in villaggi remoti incastonati in catene montuose e foreste pluviali, quelle stesse che vediamo photoshoppate sui depliant delle agenzie di viaggio.
I crimini contro quelle popolazioni sono crimini commessi contro l’umanità per commetterne contro l’ambiente: quando gli ultimi Defender saranno morti, pensateci, non ci saranno più nemmeno quote rivoluzionarie da postare sui social. Ad ogni modo, chi scrive crede che il nostro destino, facebucchisti incalliti o elitari instagramer, sia più legato a figure come quella di Julián Carrillo Martínez che non ai vari Bolsonaro. Parlottare di Bolsonaro e dei suoi simili italici è mancare l’appuntamento con la storia e con il compito che ‘le forze’ resilienti hanno. A volgere lo sguardo sulla situazione politica in casa Italia, fa impressione l’immagine desolante della intellighenzia che si autodefinisce di sinistra mentre ridancianamente si prodiga nello scovare il gene fascistoide inscritto in ciascuno di noi; quasi ad auto assolversi, quasi a voler assolvere quella presunta parte sana della società che pure ha contribuito a definire i Defender della Val di Susa, per esempio, terroristi, spacciandoli per reazionari anti progresso, anti crescita. Fa ancora più impressione oggi, alla luce di quello che sappiamo dover fare, globalmente, nei prossimi 12 anni dopo aver sperimentato cosa significhi l’espressione cambiamento climatico: territori devastati e comunità annichilite in poche ore. E fa impressione la rassegnazione indifferente alle dichiarazioni del Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, quasi tenero nel ricordare che la camorra è una pletora di schifosi che nella terra dei fuochi ‘ancora’ comanda. Tra capitani ed aspiranti conduttori conferenzieri, spiccano i Defender. Loro sono loro la nostra speranza. Gli unici eroi di cui abbiamo veramente bisogno.
(link di approfondimento: https://www.theguardian.com/environment/ng-interactive/2018/feb/27/the-defenders-recording-the-deaths-of-environmental-defenders-around-the-world;https://www.globalwitness.org/en-gb/about-us/annual-reviews/ )