E’ davvero una “fotografia che parla alla coscienza” quella esposta in centinaia di immagini a Lodi per il nono Festival della Fotografia Etica che ha vissuto un nuovo affollato weekend e che chiude nel fine settimana del 27 e 28 ottobre.
Un festival robusto, che tocca una grande pluralità di argomenti, dando profondità e risposta a molte domande che attraversano ogni giorno le cronache, principalmente quella delle migrazioni. Gli autori ospiti nella cittadina lombarda testimoniano con i loro scatti i conflitti, la desertificazione, le persecuzioni, le ingiustizie, i grandi disequilibri del pianeta, e nello stesso tempo la solidarietà umana, la fratellanza, il mutuo soccorso.
E’ giusta e convinta la fiducia nella capacità della fotografia di “approfondire e analizzare” da parte dell’associazione che promuove il Festival, il Gruppo Fotografico Progetto Immagine, con il coordinamento generale di Alberto Prima e Aldo Mendichi. Tanto che, trovatasi a non poter non prendere parola sul “clima e la tensione raggiunta in questi giorni con livelli estremi” per il caso delle mense separate nelle scuole lodigiane, ha proposto un progetto fotografico sull’integrazione [1]per l’edizione 2019 e contribuire a comporre gli animi in città.
Sicuramente una visita alle mostre in corso sarebbe stata sufficiente agli amministratori comunali, che patrocinano il Festival ed evidentemente lo condividono, per affrontare con più delicatezza o evitare la vicenda.
Sei le sezioni: il premio internazionale del festival, World Report Award 2018, coi progetti caratterizzanti l’edizione e che ha una sezione Single Shot e una No profit, oltre ai Premi Voglino 2017. Poi Uno sguardo sul mondo, lo Spazio Approfondimento, quest’anno dedicato alle soldatesse americane vittime di abusi nell’esercito, Corporate for Festival, lo Spazio Tematico che, con una felice intuizione, indaga il futuro tra Uomo e Animali, alcune alleanze e molto sfruttamento.
Troviamo esposti soprattutto progetti di reportage a lungo termine, spesso in corso da anni, anche in più paesi o continenti, che vedono l’autore coinvolto e ingaggiato personalmente nella storia che sta ricostruendo. Questo fino all’estremo, con Shah Marai, capo fotografo di Afp a Kabul che ha perso la vita lo scorso 30 aprile in un doppio
attentato, e qui presente con le sue parole e immagini in “Vite afgane”. Ma ci sono anche contesti particolari e sconosciuti ai più o in cui il narratore riesce a cambiare il corso della storia: Riccardo Bononi, in “Perle, giovane esorcista”, pur “consapevole dei limiti fissati dall’etica del fotogiornalismo”, riesce a intervenire e a
influire nella liberazione di Fatah, una ragazza ingabbiata da una comunità di esorcisti in Magadascar, perché ritenuta indemoniata e che oggi conduce invece una vita libera e in pace.
Potente il coinvolgimento che trasmette Mary F. Calvert, che ci mostra, nell’ex Chiesa dell’Angelo, tutto un altro #metoo, senza le luci dello star system, né solidarietà politiche, che si inabissa da anni negli insabbiamenti dell’esercito americano, di presidente in presidente, con un numero record di donne soldato stuprate, 14 mila nel
solo 2016, e un futuro certo di disagio psichico e di emarginazione sociale se non di suicidio. Calvert segue, rigorosamente in bianco e nero, le udienze, le vite, le sconfitte, gli spiragli quasi impossibili di normalità.
Importante, in tema di abusi su ragazzi minori, il lavoro di Tomaso Clavarino, premio Voglino, Giovane Talento, che con “Confiteor” restituisce volti e storie alle vite spezzate nel peggiore dei peccati commessi nel mondo clericale.
Location imponente, a Palazzo Barni, dove il Master Award è andato a Paula Bronstein con il reportage “Stateless, Stranded and Unwanted: the Rohingya Crisis”, un esodo biblico sotto nuvole temporalesche, di tali colori e luce da richiamare un affresco rinascimentale. Gli altri selezionati sono Tommaso Protti con il reportage “Terra Vermelha”,
progetto in corso che ha lo scopo di documentare la crescente crisi sociale nella regione brasiliana dell’Amazzonia, Camillo Pasquarelli con “The Valley of Shadows” si dedica ad alcuni giovani del Kashmir, non vedenti o semivedenti, a causa degli scontri con il governo indiano. Nanna Heitmann, giovane fotografa tedesca, documenta con il
reportage “Gone from the Window – The End of an Era”, la chiusura dell’ultima miniera nella Ruhr, avvenuta quest’anno.
Storie e narrazioni molto interessanti e molto differenti, impossibile citarle tutte. Ricordiamo la presenza delle Ong, nella sezione a loro dedicata (CARE HARBOR, ASVI, WGO, AFRICANDRONE) ma anche dietro le quinte di molte immagini e situazioni, per esempio nelle foto dei salvataggi nel Mediterraneo che appaiono tra i 30 migliori scatti della sezione Single Shot, allo spazio Cavallerizza. Siria e Ucraina, così vicine e così lontane dalla nostra consapevolezza, sono presenti lucidamente in “A(r)ma il prossimo tuo” con ROBERTO TRAINA E PAOLO
SICCARDI per Fujifilm.
Nello spazio “Uno sguardo sul mondo”, citazione dovuta per le foto di MICHELE GUYOT BOURG scattate fino agli anni ’90 al Ponte Morandi, meritano in modo particolare lo Yemen di OLIVIER LABAN-MATTEI e le ragazze velate e solenni nel buio del post Boko Haram di ADAM FERGUSON.
Infine da dire che i diversi progetti sull’uomo e gli animali sono in grado di centrare tutti i temi e di sottolineare, a parte i solari ritratti sulla relazione familiare con i pets (SILVIA AMODIO) e il lavoro a tutela delle razze in estinzione o protette, panda, elefanti e rinoceronti bianchi, in un reportage in corso da anni (AMI VITALE), quanto l’Umanità stessa stia scrivendo la propria sconfitta negli allevamenti crudeli per la vanità e il lusso, di struzzi, caimani e
visoni (PAOLO MARCHETTI), nella manipolazione genetica dei bovini per sfruttarli meglio (NIKITA HERYOSHIN), nel trasformare la vita dei cani in scommesse sulla loro ferocia (WU JINGLI).
Resta un weekend per vedere tutto ciò e altro ancora. Ci sarà un po’ di coda, ma la visita è consigliata e val la pena dare un segnale per sostenere l’_engagement_, parola desueta, del Festival e del fotogiornalismo.