«Raccontare storie è la cosa più importante», parole del famoso fumettista e regista Gip, alias Gian Alfonso Pacinotti. Il primo disegnatore a ricevere una candidatura al premio Strega (nel 2014 con «Unastoria») e conosciuto dal grande pubblico anche grazie ai suoi corti a «Propaganda live», il programma su La7. Dopo «L’ultimo terrestre», film d’esordio uscito nel 2011, torna dietro la macchina da presa con il bizzarro «Il ragazzo più felice del mondo», prodotto da Fandango. Il film presentato nella sezione “Sconfini” del Festival di Venezia prende spunto da una storia vera: da più di vent’anni un ammiratore seriale, che si finge il quindicenne Francesco, scrive lettere a tutti gli autori di fumetti italiani, chiedendo in regalo un loro “schizzo”. Gipi indaga, si mette sulle sue tracce. E inizia un’avventura, folle, surreale e intima. A TheSpot l’autore pisano dallo spirito anarchico riflette sul mestiere del disegnatore e ci racconta la sua vita da fumetto, ricca di improvvisazione e strane coincidenze, come quella volta che ha dovuto ringraziare Silvio Berlusconi.
Perché un fumettista vuole fare un film?
Chiunque sceglie un mestiere che implica l’esposizione al pubblico e la ricerca dell’applauso ha qualche problemino. Sono cresciuto in una famiglia dove l’approvazione era fondamentale. Dovevo essere il più bravo, in tutte le attività. E pensavo che l’amore fosse ricevere consenso mentre fai qualcosa fatto bene, e mi sono ritrovato a fare un mestiere che raccontava storie.
Come nasce la voglia di esprimersi raccontando storie?
Per passione. Quando con il mio lavoro di fumettista ho raggiunto una notorietà alcune cose nella mia testa hanno iniziato a non funzionare bene. Ho avuto un periodo brutto. Mi sono dovuto fermare, nonostante avessi scritto “Unastoria” che aveva venduto molto. Mi sono chiesto perché stessi così male. E ho capito che quell’amore che cercavo serviva per colmare un vuoto. Ma il successo non lo placava.
Come hai trovato nuovamente l’equilibrio?
Tornando a casa. In quel periodo abitavo a Parigi. Ho lasciato tutto e sono ritornato in provincia di Pisa, dagli amici di un tempo. Non mi ero montato la testa. Ma qualcosa era cambiato. Ho ripreso le misure: mi sono dedicato esclusivamente a me e a quello che mi piaceva. Senza l’esposizione al pubblico.
La settima arte è stata uno step di un percorso interiore?
Non sono un appassionato né di fumetti, né di cinema. Mi piace raccontare. Quando una storia mi arriva in testa e prende il posto necessario per diventare vera, mi dice quale forma assumere. Può essere scritta, raffigurata in teatro, oppure sotto forma di canzone o al cinema.
In questo momento su cosa stai lavorando?
Ad un nuova storia per un libro a fumetti che può essere solo a fumetti.
Domenico Procacci, Il produttore di Fandango, compare nel film nei panni di se stesso, come sei riuscito a convincerlo?
Semplicemente chiedendoglielo. Lui mi vuole bene e si è anche divertito. Abbiamo improvvisato e Domenico è stato bravissimo. In una scena ci sono anche io che canto “faccia di merda”, in un’altra faccio il mimo sulla Via Ardeatina dove ho anche rischiato di fare a botte con un camionista che poteva uccidermi solo con un dito (ride, ndr).
Sul set c’è stata molta improvvisazione?
Si, gli attori sono miei amici. Confidavo nella loro naturalezza ed ha funzionato. Quando assegni delle parti scritte le cose si complicano un po’.
Perché in Italia l’arte del fumetto, come espressione artistica, non viene difesa come invece succede negli altri paesi stranieri?
Non vorrei mai che lo Stato o il Ministero della cultura se ne occupassero. Sono molto estremo. Preferiscono non avere nessun tipo di protezione. La libertà è la cosa a cui tengo di più in assoluto. Nella mia esperienza da fumettista non ho mai conosciuto un autore di talento che non sia emerso impegnandosi. Ho visto molti mediocri lamentarsi del sistema. Per due decenni io ho fatto la fame. Se hai la passione vera e qualcosa da dire non devi desistere.
Cosa chiede oggi un ragazzo che vuole fare il fumettista?
Raccontatore storie è da privilegiati. Quello che chiedono i giovani fumettisti è vivere della loro passione, senza avere nessun capo sopra di se. E questa posizione di privilegio assoluta la devi conquistare con il sangue.
Non pensi che l’era digitale in qualche modo possa schiacciare il fumetto?
No, anzi fa bene. Ora con una mail puoi far vedere subito i tuoi disegni alla Pixar. Le possibilità sono enormi. I produttori di cinema di animazione ha una fame sconfinata di talenti. Il problema, invece, è chiedersi: “Quanto mazzo ti sei fatto in vita tua per arrivare?”
Avevi mai pensato ad un piano alternativo?
Certo. Per vivere ho lavorato in pubblicità come illustratore, come lavapiatti in rosticceria e in una fabbrica di medicinali. Ma avevo sempre la testa altrove. Poi sono diventato art director nella pubblicità per quattro anni. Fino a quando mi sono guardato allo specchio e mi sono detto se volevo continuare fare campagne per concorsi a premio. Ho mollato. E tutto è cambiato nel ‘94.
Cosa è successo?
Ero in bagno e dalla televisione accesa arriva la notizia che Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni. Sento un dolore sociale. E per la prima volta mi sono messo a disegnare male, senza fare caso alla qualità, e poi ho inviato i miei disegni alla rivista satirica “Cuore”. Il giorno dopo mi hanno chiamato per lavorare con loro. Sono l’unico posto di lavoro reale sul un milione promessi dall’ex premier.
E ora politicamente parlando senti ancora questo dolore?
Muoio. Mi sento male e penso che sia un sentimento diffuso tra molti italiani che ovviamente non viene condiviso dai vincitori che ci governano.