Un ritorno alle origini primordiali, l’immersione totale con la natura e con la sua amena e difficoltosa essenza. E’ questo ciò che Veyes desidera ed è riuscito ad ottenere lasciandosi alle spalle tutta la sua realtà di un tempo.
Emre Yeksan ha scritto e diretto il suo primo lungometraggio ‘Yuva’ dando spazio ad un’intima e profonda ricerca del sé da parte del protagonista.
Film d’apertura della VI edizione di Biennale College, Yuva del turco Yeksan, è una favola amena dalle sfumature mistiche che affronta un tema antico e ancestrale: il recupero del rapporto primitivo con la natura.
Veyes (interpretato da Kutay Sandıkçı) vive in solitudine nel bosco, accompagnato solo dal fedele cane lupo femmina, totalmente immerso in quell’ambiente che egli stesso ha scelto come propria abitazione consentendosi solo un sottile legame con la ‘civiltà’ dato dal bisogno di procurarsi delle batterie per alimentare lanterne notturne.
Immerso in un’atmosfera quasi ancestrale, circondato dai soli rumori della natura, Veyes sembra aver recuperato l’essenza pura ed estrema dell’uomo. L’inizio del film è tutto incentrato sul rapporto così viscerale che il protagonista ha instaurato con l’ambiente circostante, non servono dialoghi -le prime battute, infatti, arrivano dopo circa 15 minuti dall’inizio del film- basta guardare e godersi le immagini e le azioni svolte da Veyes.
Per lui, però, tutto cambia quando quel terreno viene venduto ad investitori che ne pretendono lo sgombero immediato. Chi dovrebbe convincerlo ad andarsene è il fratello minore Hasan (Eray Cezayirlioğlu) che arriva dalla città con questo preciso compito. Un arduo compito il suo che già si comprende dal primo incontro con il fratello che si trasforma, subito, in uno scontro fisico tra i due.
Per Hasan sembra inconcepibile comprendere le scelte estreme del fratello maggiore, lui che è così ‘devoto’ alla sua famiglia e al modus vivendi ‘civile’ non può accettare che esista la possibilità di un distacco radicale da quel mondo che lui considera l’unico pensabile.
Pian piano, anche per Hasan, le cose cambieranno. Non sarà Veyes ad indottrinarlo ma ci penserà la stessa avvolgente natura. Presto il fulcro del film diventa il fratello minore, il nuovo protagonista viene, irrimediabilmente, inglobato dall’ambiente circostante, un alone di ataviche energie quasi ‘magiche’ lo riporteranno alle radici del suo esistere. Si renderà conto che anch’egli cela cose che non sapeva di possedere, scoprirà che la sua arcaica sostanza interiore diverge rispetto al mondo che abita e che lo sta costringendo a fare i conti con la cementificazione di quei luoghi e con una realtà basata sul mero denaro.
Un viaggio iconografico –dato dall’acqua, dagli alberi, dalla foglie- nella ricerca del sé e che come un vortice ti attrae e ti risucchia.
Una parabola della società odierna, dove la precarietà che minaccia i suoi protagonisti sembra essere la stessa che incombe su di noi e, nella visione di Yeksan, sulla Turchia odierna, dove l’introspezione non può conciliarsi con la libertà.
Perché c’è qualcuno che ti minaccia, che decide per te e compie scelte costringendoti a divenire un individuo che ha perso la sua essenza ma che, inevitabilmente, sente l’urgenza di ritrovarla e riconquistarla a tutti i costi.