Negli ultimi trent’anni le pellicole del premio Oscar Alfonso Cuarón hanno trasportato gli spettatori in mondi inconsueti: la scuola di una giovane vittoriana, un futuro distopico e sterile, il mondo incantato di Harry Potter e l’immenso vuoto dello spazio.
Con ROMA, presentato in concorso alla 75esima edizione del Festival di Venezia, Cuarón torna alla Città del Messico della sua infanzia. “Questo è il film più autobiografico che abbia mai fatto. Il 90 percento delle scene viene dalla mia memoria”, spiega Cuaron. “La casa del film è identica a quella in cui sono cresciuto e abbiamo recuperato il 70 percento dei mobili originali”.
Siamo a Città del Messico, tra il 1970 e ul 1971. Da un lato, c’è Avenida de los Insurgentes, la parte più elegante ed esclusiva della città in quel periodo, e dall’altro c’è il quartiere borghese di Roma. E poi c’è Netzahualcóyotl, un quartiere povero che stava incominciando ad espandersi proprio in quegli anni, una sorta di favela priva di qualsiasi infrastruttura.
Girato in bianco e nero in 65mm, Roma è la personale dedica del regista alle donne che lo hanno cresciuto. Il film segue le vicende di Cleo, una ragazza di origine mixteca che lavora come domestica e tata per una famiglia alto-borghese, residente nel quartiere di Roma. La matrona è Sofia, Marina de Tavira, che deve fare i conti con le prolungate assenze del marito.
ROMA rappresenta il primo progetto di Cuarón dopo il pionieristico Gravity del 2013 (premio Film Digital Award), nonché il suo quarto lungometraggio presentato alla Mostra del Cinema di Venezia dopo Y Tu Mamá También (Leone d’Oro per la miglior sceneggiatura e premio Marcello Mastroianni) e Children of Men (Premio Lanterna Magica).
“Mentre stavo finendo le riprese del film precedente, mi ripromisi che il prossimo sarebbe stato qualcosa di più semplice e di più personale”, ricorda Cuarón. “Mi resi conto che era giunto il momento di tornare indietro e di fare un film in Messico”.
Il film, in uscita a breve su Netflix e nelle sale selezionate, non è solo il racconto di due donne alla ricerca di amore e solidarietà in un contesto di razzismo e gerarchia sociale, ma è anche il ritratto del paese centroamericano in un momento politico cruciale della sua storia.
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Come la famiglia rappresentata in ROMA, anche il Messico sta attraversando una trasformazione sconvolgente. Una serie di proteste studentesche a favore della democrazia culminarono nel tristemente famoso Massacro del Corpus Christi: un gruppo paramilitare appoggiato dal governo e noto come Los Halcones (i Falchi) uccise brutalmente circa 120 persone.
ROMA è il primo film che Cuarón ha girato nel suo paese natale dopo Y Tu Mamá También. Era deciso a farne un’esperienza essenzialmente messicana. “È stato profondamente liberatorio girare un altro film nella mia lingua madre” dice ancora Cuaron. “Lo spagnolo che parliamo noi è chilango, con il tipico accento degli abitanti di Città del Messico. Sogno in chilango, è per me assolutamente naturale ed istintivo. Nel film ho voluto recuperare una certa sottigliezza linguistica di quel periodo”.
Per il casting sono state intervistate migliaia di persone e a quelle selezionate da Cuarón è stato chiesto di parlare di sé in una breve video-intervista. Yalitza Aparicio, che interpreta Cleo, è una ragazza senza esperienza di recitazione, scoperta da un meticoloso casting director in un villaggio rurale nello stato messicano di Oaxaca.
Dal punto di vista concettuale, Roma è il tentativo del regista messicano di esplorare i concetti di tempo e spazio, confondendone volutamente confini e percezioni degli stessi. “Ci sono periodi nella storia che lasciano cicatrici nelle società. Ma esiste anche la mia speranza che oggi i conflitti vengano superati. Molti orrori in Messico purtroppo esistono ancora”.