Capita che nell’era di slogan come ‘prima gli italiani’ possano diventare popolari anche le espressioni ‘Ratail Apocalypse’ o ‘Mall Zombie Apocalypse’. Hanno già scritto del fenomeno in atto da un decennio sia negli Usa, dove le espressioni sono state coniate e dove sono attivi progetti di censimento con tanto di selfie nei Mall Zombie (per gli appassionati si consiglia la panoramica sul sito deadmalls.com (http://deadmalls.com); sia ad est degli Usa, anche in Italia.
Ma procediamo con ordine. A cosa ci si riferisce quando si scrive o si parla di Retail Apocalypse? L’8 novembre del 2017, Bloomberg ha pubblicato un articolo di sintesi della situazione il cui titolo a tradurlo risuona, più o meno minacciosamente, così: La reatail apocalypse americana è solo all’inizio. Il fatto che ci informino anche dell’esistenza di una voce dedicata su wikipedia, quindi pronta ad essere democraticamente digerita come sapere nel caro formato prêt-à-apprendre, implica che si debba essere pronti a pagine di studi sociologici, analisi sul cambiamento comportamentale del consumatore medio, sublimazione dell’estetica apocalittica da parte della fotografia impegnata e del cinema sociale, rappresentazioni grafiche della crisi, più o meno illeggibili ai più.
Insomma, scritto in parole facili, Retail Apocalypse evoca la crisi dei centri commerciali, dei mall, delle grandi catene di rivenditori che negli Usa, e non solo, ha fatto registrare negli ultimi anni numeri importanti. Si dice così. Ci si domanda, allora, se questa crisi possa arrivare a sconvolgere la mite terra italica, affaticata al momento da difficili controversie politico-economiche e sospesa tra l’orgoglio delle meraviglie di pierangiolesca memoria ed il pregiudizio sublimante il concetto del ‘moglie e buoi dei paesi tuoi’.
Da un punto di vista squisitamente numerico, la crisi dei centri commerciali, dei mall, dei grandi marchi della distribuzione non corrisponde necessariamente ad una crisi del settore retail in Italia. Secondo uno studio di Ernest&Young (EY Retail Intelligence 2017) il bel paese occupa il 6° posto a livello globale per giro d’affari nel settore retail. L’infografica in dettaglio rivela un futuro roseo: un totale di circa 920 miliardi di euro l’anno generati da una rete di 750 mila punti vendita. Un mercato che per il biennio 2018-2019 prevede uno sviluppo del 2,7% e previsioni per il 2018 che parlano di 2.000 nuovi punti vendita e 20.000 nuovi posti di lavoro.
Insomma se Retail Apocalypse deve essere non sembra riguardare l’Italia ed il settore retail. Siamo all’alba di un’epoca di rivoluzione architettonica dello spazio fisico dedicato al settore. In realtà, quella che si spaccia per apocalisse e che mal spiegata potrebbe far tremare nell’evocarla i figli brizzolati della crisi del 2008 non è altro che un ‘normale’ periodo di transizione condito ancora dal sangue e dalle lacrime di coloro che subiranno le nuove dinamiche di crescita, trasformazione ed evoluzione del rapporto tra consumatore e rivenditore. In sintesi alla bruttezza e al gigantismo dei punti vendita (simboli fallimentari della città mammona che riconosceva come figlia legittima la periferia urbana negli anni ’80 e ‘90) si comincia a preferire la frammentazione graduale di cosiddetti negozi di prossimità, dove il consumatore è affidato alle amorevoli cure del retailer esperienziale. Tra marketing esperienziale, shopping on-line, intelligenze artificiali e bot per lo shopping vocale, come già anticipa l’accordo fra Walmart e Google negli Usa, il futuro della strategia dei retailer è tutta a favore del consumatore medio a cui verrà pure in mente l’idea di stare risparmiando tempo, denaro e di essere anche più consapevole di cosa acquista.