Ma alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica c’è elettricità. Già dalle 19, fan accalcati sotto il cielo ancora chiaro, birre, magliette nere, occhi lucidi. C’è qualcosa nell’aria. E infatti, alle 21 in punto, Skin e gli Skunk Anansie fanno tremare tutto.
Non c’è introduzione. Si parte subito con Charlie Big Potato, e la Cavea esplode. Skin entra in scena avvolta in un lungo mantello nero, come una sacerdotessa punk distillata da trent’anni di rabbia, glamour e verità. Alla fine del pezzo, lancia il mantello a terra. Il pubblico è già suo.
Segue una scaletta travolgente: “Because Of You”, “An Artist Is An Artist”, “I Believed In You”. È un viaggio dentro la rabbia e la fede, l’amore e la resistenza. La voce è potente, precisa. Il corpo, libero. Skin corre, salta, si inginocchia, danza come se il palco fosse un’estensione del suo pensiero.
E il pensiero arriva forte e chiaro. Tra un brano e l’altro, Skin non si trattiene: “Non possiamo restare in silenzio mentre nel mondo si commettono crimini contro civili innocenti. Gaza, Palestina, Israele: non basta scegliere un lato, bisogna scegliere l’umanità.”
La platea ascolta in silenzio, poi applaude. “We are here for peace, not for power,” aggiunge, in italiano.
In un altro momento, prima di “God Loves Only You”, alza il pugno e grida: “Essere queer, essere liberi, essere se stessi — è ancora oggi un atto politico. E noi siamo qui per questo.” Scrosciano gli applausi. “I’m a black bisexual woman who survived the rock business for thirty years — and I’m still standing!”
Standing ovation.
La scaletta prosegue senza cedimenti: Love Someone Else, Hedonism, cantata da tutto il pubblico con la voce rotta, poi “Shame”, “You’ll Follow Me Down”, “Weak”, “I Can Dream”. È un concerto fisico, collettivo, coinvolgente. Un rito rock.
Ma è con “Yes It’s Fucking Political” che la serata cambia marcia. Skin si sporge, guarda il pubblico negli occhi: “In un’epoca di algoritmi, la musica deve essere ancora rivoluzione.”
E a quel punto succede qualcosa che trasforma la Cavea in un luogo di pura connessione. Skin scende tra la folla, si fa sollevare dal pubblico come in una cerimonia laica di consacrazione rock, e poi, microfono alla mano, chiede di aprire un cerchio.

“Make a space. I want to sing in the middle. Right here. With you.”
E lo fa davvero: canta al centro del pubblico, abbracciata e sostenuta come un corpo collettivo. Non è solo musica: è militanza, condivisione, rito.
Poi arriva “Little Baby Swastikkka”, e l’Auditorium è un’onda compatta di rabbia consapevole. Il finale è puro delirio: “Secretly”, una versione granitica di “Highway to Hell” (cantata in piedi da tutto il parterre), “Tear The Place Up” e la conclusiva “Lost and Found”, con Skin inginocchiata al centro del palco, le mani aperte come a dire: eccoci, siamo ancora qui.