Grazie alla psicosi assurda da coronavirus questo meraviglioso film di Giorgio Diritti chissà quando uscirà in Italia. Intanto il film è stato presentato alla 70 Berlinale dove ha riscosso un successo clamoroso. Fortunati i tedeschi quindi e i pochi giornalisti che ne hanno goduto in anteprima. Noi ve lo raccontiamo perchè possiate segnarlo nel taccuino e andare a vederlo quando possibile.
Tutti quelli che hanno una certa età ricorderanno il primo contatto con la figura di Antonio Laccabue detto Ligabue attraverso lo sceneggiato (oggi sarebbe una pazzesca serie tv) andato in onda nel 1977 con Flavio Bucci. Un immenso, gigantesco, impressionante Bucci. Fosse stato un film avrebbe vinto l’Oscar.
Statuetta per la quale, secondo me, si candida anche Elio Germano, e lo dico con un anno di anticipo. Così come si candida il film, che in Italia sbancherà tutti i premi possibili, a Berlino vedremo.
Storpio, distorto, emarginato, barbone, affetto da gotta, rachitismo, gozzo, problemi mentali, abbandonato dalla madre in Svizzera, povero. Questo è Antonio Ligabue, un autentico genio che ha attraversato sul suo corpo ogni possibile umiliazione ed ogni volta ne è risorto a colpi di colori e di pennellate alla Van Gogh. Un’anima pura e nobile, un buono, un umile, non a caso amava i bambini e gli animali che erano esattamente come lui.
Troverà rifugio lungo le rive del Po, in quell’Emilia che lo accoglie e lo respinge insieme, perchè per tutti sarà sempre “El tudesc”. Quello che agli angoli delle strade ti vende la tigre per quattro soldi, quello che scansate se passa, quel mat del tudesc. Schivo, di pochissime parole, voleva solo essere amato. Voleva una moglie, voleva solo un bacio. Una comunità che lo accoglie ma anche lo prende in giro, dove la funzione del matto è riconosciuta come utile, così come il dottore o l’avvocato.
“Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse solo libertà e amore” è scritto sul suo epitaffio nella tomba di Gualtieri, in Emilia.
Chi lo comprese davvero furono i due artisti Mazzacurati e Mozzali che seppero dargli amore, ricovero e, soprattutto possibilità artistiche reali, tele e colori, un pasto caldo, senza di loro forse non avremmo Ligabue. Chi lo comprende davvero è il regista Giorgio Diritti che ha passato molto tempo a studiare la figura di Ligabue e a parlare con persone che lo hanno conosciuto. Chi lo comprende è naturalmente Elio Germano che una volta di più ci rivela il suo talento cristallino.
Elio scompare e rivive dentro il magro corpo di Antonio, che si trascina nodoso e storto, allampanato, con questa bocca aperta sempre pronta a bere un po’ di amore.
E’ un film sul diverso, sull’accoglienza, sulla capacità di vedere l’anima e non la materia, per lunghi tratti ricorda Elephant Man di David Lynch, anche lui voleva solo dormire come gli altri, e naturalmente richiama il Joker, lui voleva solo far ridere.
C’è, anche quando Ligabue comincia ad avere un certo successo, sempre un velo di predestinazione sulla sua infelicità, rotto solo a volte dal rombare delle moto che Antonio si comprava. L’unico modo che aveva di essere come gli altri.
Ma se non ha parole Ligabue ha disegni, ha anima, ha colori, ha un’ansia espressiva che lo mangia dentro, che lo porta addirittura ad immedesimarsi nei suoi animali, rotolandosi come loro o spalancando le braccia come dovesse volare.
Oltre alla strabiliante prova di Germano c’è anche la mano poetica di Giorgio Diritti, così abile ad indagare il territorio della bassa padana, a scorrere lento tra le canne delle rive del Po, tra i suoni della natura raccontando i silenzi, a scrutare volti quasi medievali, quasi rinascimentali, rimanendo fedele a quel dialetto così vero che racconta quegli occhi tristi e fuori cranio eppure mai vittimisti di Toni.