Con un mandato di arresto permanente negli Stati Uniti per aver fatto sesso con una ragazzina di 13 anni, Roman Polanski, il regista premio Oscar per Il Pianista, vive in esilio, per lo più in Francia, da 40 anni, conferendo alla sua eredità negli Stati Uniti un pallore quasi postumo. L’ultima accusa di molestie è arrivata qualche mese fa da parte di una ex attrice tedesca che rivela di essere stata aggredita da Polanski quando era minorenne.
Mentre imperversa la campagna #metoo contro le molestie sessuali nata con lo scoppio del caso Weinstein, l’uscita del suo nuovo film Quello che non so di lei (D’après une histoire vraie nel titolo originale), ripropone con forza la vecchia questione sulla differenza tra uomo e artista. C’è chi sostiene che lo status di celebrità abbia protetto Polanski, e come lui Woody Allen, dal rendere conto delle proprie azioni. C’è chi invece invoca la necessità di salvare l’opera dai crimini del suo creatore.
Un dibattito tuttora aperto, che difficilmente troverà una risoluzione chiara e unanimemente condivisa. Una cosa è certa. Ultimamente il regista polacco naturalizzato francese fa parlare di sé più per le sue vicende giudiziarie, che per i suoi film. In Quello che non so di lei, nelle sale italiane dal 1 marzo, Delphine, interpretata da Emmanuelle Seigner, è una scrittrice di successo. Il suo ultimo romanzo, quello più personale in cui racconta la storia di sua madre, è diventato un best-seller mondiale. Scrivendolo si è messa completamente a nudo, al punto da essere accusata di aver mentito.
Tutti aspettano un suo nuovo capolavoro, ma Delphine non riesce più a scrivere. Poi un giorno arriva Leila, Eva Green, una giovane donna enigmatica che sostiene di essere una fan del suo lavoro. E quella che sembrava essere un’amicizia si trasforma in un rapporto morboso e ambiguo.
E’ stata Emmanuelle Seigner a consigliare a suo marito Polanski la lettura del romanzo omonimo di Delphine de Vigan alla base del film . “La cosa che più mi ha attratto e fin da subito, sono stati i personaggi e le situazioni insolite e inquietanti in cui si ritrovano”, ha spiegato il regista.
Polanski ha spesso mostrato conflitti tra due uomini, così come tra un uomo e una donna, ma mai tra due donne. Per farlo ha caricato i due personaggi di una certa dose di ambivalenza in modo da far sorgere nello spettatore il dubbio, l’incertezza e il sospetto. Un gioco che ricorda gli spettacoli di marionette, in cui i bambini erano paralizzati sia dalla paura che dalla felicità allo stesso tempo, l’intrigo svelato sempre, sia che li spaventasse o che se lo aspettassero.
Il contesto e la struttura del film sono quelli di un classico thriller psicologico ma presenta diversi weak spots. Nel tentativo di indicare il pericoloso crinale tra ammirazione e idolatria, Polanski si prolunga in dettagli inutili e spesso non necessari. Mentre Emmanuelle Seigner cerca di trasformare il suo carattere superficiale in qualcosa di minimamente credibile o empatico, il personaggio di Eva Greene rimane confinato in un ruolo macchiettistico. Dal momento che tutto è prevedibile, Delphine è l’unica stupida a non aver capito come stanno le cose. Permette a Elle di insinuarsi nella sua vita, e c’è persino una certa tensione erotica nell’aria tra le due signore.
Polanski e il co-sceneggiatore Olivier Assayas, che ha nel suo curriculum film più significativi come Personal Shopper, non aggiungono nulla di nuovo ad un tema già ampiamente indagato in film come “La nona porta e L’uomo nell’ombra, ovvero ciò che di perturbante accade allo scrittore quando entra nel gelido mondo della sterilità creativa. Rimane tutto sommato un thriller decente.