Brunello, il visionario garbato, il nuovo film di Giuseppe Tornatore in uscita nelle sale il 9, 10 e 11 dicembre, si apre con un volto in primo piano. Una voce chiede se si può cominciare. La risposta si incrina, la scena si interrompe prima di prendere forma, lasciando una domanda sospesa su ciò che significhi davvero raccontare una vita.
Poi lo spazio si allarga. Strade di campagna, alberi, una collina che sembra trattenere i suoni. Un bambino parla a un piccolo registratore, enuncia pensieri come se stesse lasciando prove di un tempo che già sa di poter dimenticare. Nessun commento, nessun contesto: solo un gesto, e quel gesto apre il passato come una porta.
L’arrivo a Solomeo ha un effetto immediato. Il borgo è presentato come se fosse già un personaggio, con i suoi ritmi, le sue pietre, il suo ordine. Non viene introdotto: è semplicemente lì, il luogo che sostiene tutto il resto. Una troupe televisiva aspetta, sistema cavi, regola luci. Non si capisce se il film stia documentando il loro lavoro o se loro stiano documentando il film. È un doppio sguardo che resterà costante lungo tutta la narrazione.

Giuseppe Tornatore dichiara, fuori campo, che quest’opera non appartiene a un’unica definizione. Sostiene che non è un documentario, non è un film, non è uno spot, ma qualcosa costruito mescolando tutte queste forme. Racconta che, quando gli è stato proposto il progetto, non era sicuro da dove cominciare. La chiave arriva da un dettaglio: il rapporto di Cucinelli con il gioco delle carte. È da lì che nasce l’idea della struttura, come se la vita fosse una partita fatta di scelte, rischi, strategie e mani decisive.
Questa impostazione si riflette nella fluidità del film. Le scene ricostruite si alternano a interviste reali senza segnali di passaggio. I momenti privati e quelli pubblici non vengono separati. Le immagini del Brunello bambino, di quello adolescente e di quello adulto non cercano somiglianza fisica assoluta, ma continuità di intenzione, come capitoli di un’unica storia che scorre sotto superfici diverse.
Cucinelli osserva tutto questo dall’interno ma non interviene. Racconta di aver visto il film per la prima volta con in tasca un foglio di appunti. Aveva previsto di segnare ciò che non lo convinceva, i dettagli da correggere, le scene da riequilibrare. Alla fine della proiezione il foglio è rimasto bianco. Afferma di essere rientrato a casa con la sensazione che la storia, così com’era, funzionasse per ciò che doveva dire.
Il film attraversa anche la sua relazione con il tempo. Racconta che, all’inizio delle riprese, aveva espresso il timore che il progetto potesse non arrivare alla data di uscita. Il modo in cui lo dice entra nel film quasi come un segnale di urgenza: completare il racconto non è solo un’esigenza produttiva, ma una forma di ordine personale. Un limite temporale diventa una cornice narrativa.
Tornatore insiste sull’autonomia con cui ha lavorato. Sottolinea che nessuno ha chiesto modifiche o revisioni. La versione che lo spettatore vede è quella che aveva immaginato fin dall’inizio. La sceneggiatura, le ricostruzioni, le interviste, i momenti ironici: tutto è rimasto nella forma originaria, senza aggiustamenti posteriori.
Il film dedica molta attenzione a Solomeo, osservato non come un luogo ideale ma come un organismo costruito nel tempo. Le case, i laboratori, le piazze e i parchi vengono mostrati come elementi di una storia coerente, radicata in un’idea precisa di comunità, lavoro e bellezza. Non c’è enfasi, non c’è celebrazione, solo una somma di gesti concreti che compongono un progetto.
Parallelamente, il film affronta il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Tornatore sottolinea che uno dei punti più significativi della vita del protagonista è stato il periodo in cui non sapeva cosa fare. Lo considera un nodo che può parlare a molti spettatori, in particolare ai giovani. Vede in quella incertezza iniziale una possibilità di identificazione immediata.
Cucinelli, dall’altra parte, definisce la sua storia come un percorso di perseveranza e come un messaggio destinato alle nuove generazioni. Dice che vorrebbe che il film fosse una spinta a coltivare i propri sogni, senza paura, anche quando sembrano irraggiungibili.
La narrazione mantiene sempre un movimento regolare, senza accelerazioni o spiegazioni. Non viene detto che la sua biografia è “esemplare”; non viene suggerito che il suo percorso sia replicabile. Viene solo mostrato. Le immagini della casa natale, del borgo restaurato, dei laboratori, delle persone che lo circondano formano una geografia personale che il film restituisce senza orpelli.
Quando la storia ritorna al primo piano iniziale, il volto è lo stesso, ma il contesto è cambiato. La domanda è la stessa, ma ora la risposta è possibile. Non c’è una conclusione netta, non c’è una sintesi. Il film termina lasciando l’impressione di aver attraversato un territorio, non di averne tratto un giudizio.
L’effetto finale non è quello di una celebrazione, ma di un ritratto costruito per stratificazione, dove parole, luoghi e immagini convivono in modo naturale. L’opera lascia soltanto una linea chiara: l’idea che una vita, osservata da vicino, non è un monumento, ma una serie di passaggi che possono essere raccontati senza chiuderli, lasciando allo spettatore il compito di interpretare ciò che rimane sospeso.

















